Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  settembre 01 Martedì calendario

Vent’anni di grandi riforme. Gavin Jones, un giornalista di Reuters da molti anni in Italia, ha scritto una lunga analisi in cui si è chiesto come mai negli ultimi vent’anni, nonostante quattro riforme del mercato del lavoro, tre della pubblica amministrazione e altrettante della scuola, l’Italia soffra ancora di scarsa crescita, molta disoccupazione e di un’istruzione inadeguata alle sfide del presente

Ah, le riforme. «Nessuno ne ha fatte così tante in 18 mesi», rivendica Renzi. Difficile dargli torto. Funzioneranno? La domanda è lecita. Gavin Jones, un giornalista di Reuters da molti anni in Italia, ha scritto una lunga analisi in cui si è chiesto come mai negli ultimi vent’anni, nonostante quattro riforme del mercato del lavoro, tre della pubblica amministrazione e altrettante della scuola, l’Italia soffra ancora di scarsa crescita, molta disoccupazione e di un’istruzione inadeguata alle sfide del presente. Se aggiungiamo le quattro dedicate alle pensioni, il totale è di 14 riforme. Eppure nell’ultimo ventennio – lo dicono le statistiche ufficiali – abbiamo registrato il più basso tasso di crescita del continente e uno dei cali più marcati dei redditi. I pasdaran no euro dicono che è tutta colpa della moneta unica. In realtà le cose non sono andate sempre così male: fra il 2005 e il 2007 siamo cresciuti ad un ritmo del 2 per cento l’anno con una disoccupazione alla tedesca, poco sopra il 6 per cento. I problemi sono iniziati dopo, nonostante riforme, riforme e ancora riforme.
Lasciamo perdere qui le ragioni della crisi, o i limiti dell’architettura europea. Cerchiamo di capire il perché di questa (apparente) contraddizione. Finché c’è stata la prima repubblica, il problema era la scarsa durata dei governi. Non c’era ministro che tentasse di passare alla storia prima di cadere per mano di qualche corrente Dc. Dopo è subentrata la sindrome destra-sinistra, quella voglia matta di smontare a prescindere il lavoro dei predecessori. È il caso della riforma Damiano delle pensioni, che abolì l’odiato «scalone» Maroni, rialzando la spesa pensionistica di una decina di miliardi. O quella di Berlinguer (Luigi) che volle fare piazza pulita di quanto fatto da D’Onofrio per la scuola. Poco importa se ci fossero ragioni valide per cambiare. De Mauro introduce nuove regole? Alla Moratti e alla Gelmini il compito di abolirle. Risultato: complice la tendenza degli insegnanti a dire sempre no, la scuola somiglia ancora a quella di Gentile. 
Quando non è una questione politica, si fa sentire l’illusione tutta italiana di risolvere i problemi per legge. La condanna di un Paese nel quale – dice l’economista Filippo Taddei – «la fanno sempre da padrona le ragioni dei giuristi». Una volta fatte, «le riforme bisogna applicarle», incalza Maurizio Sacconi. Se ne accorse Monti, che pure di riforme ne sfornò parecchie. Più lavorava, più si alzava la pila dei decreti da attuare nei ministeri. Almeno questa lezione l’abbiamo imparata: ogni consiglio dei ministri oggi si apre con una relazione della Boschi sullo stato di attuazione dei decreti. Se all’eccesso di norme aggiungiamo la fantasia di chi le regole le deve fare rispettare, il pasticcio è servito. Renzi è riuscito ad abolire l’articolo 18, almeno per i nuovi assunti. Ma prima di lui c’era stato il tentativo della Fornero, che prevedeva la reintegrazione del licenziato per «manifesta insussistenza del fatto». Di che fatto si parla, si chiesero i giudici, «materiale» o «giuridico»? Qualcuno scelse la prima strada, altri la seconda. Infine ci sono le riforme gattopardo, quelle che non cambiano nulla. Prendiamo la concorrenza: con l’eccezione della lenzuolata voluta da Bersani, non c’è progetto arrivato in porto. Non quello di Monti, smontato dalle lobby in Parlamento, non quello di Renzi, che ora rischia la stessa sorte. Che venga da qui un bel pezzo del problema? 
Twitter @alexbarbera