Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  settembre 01 Martedì calendario

The Trump Show. Litiga con i giornalisti, insulta gli avversari, dice cose di estrema destra e scavalca a sinistra i democratici e guadagna sempre più consensi. Fa paura a repubblicani e democratici, perché nessuno sa muoversi meglio di lui davanti ai riflettori e sul palcoscenico. Anche su quello della politica, stando ai sondaggi

Uragano Donald. È il vero fenomeno della stagione. Semina il terrore più di un tornado tropicale. Prima ha cominciato a spaventare l’establishment repubblicano. Adesso inquieta anche il fronte opposto. Perché il magnate Donald Trump una volta dice cose di estrema destra, il giorno dopo scavalca i democratici a sinistra. L’ultima trovata: «Più tasse sui finanzieri degli hedge fund. Stangata fiscale sulle multinazionali che delocalizzano posti di lavoro all’estero». Giornalisti esperti, veterani delle campagne elettorali americane, confessano apertamente il loro smarrimento. Ecco lo sfogo del Washington Post: «Tre mesi alle prese con la candidatura Trump, ed eccolo saldamente in testa tra i repubblicani. Facciamo fatica a capire com’è potuto succedere». Più lui litiga coi giornalisti, li insulta e li offende, più loro sembrano affascinati, ipnotizzati. Nei media ormai siamo allo one-man show, Trump dilaga su tutti i canali tv, gli altri sono scomparsi. Ha perfino creato uno scisma all’interno di Fox News, la rete di Rupert Murdoch che è la tv di riferimento della destra. Al primo dibattito televisivo Trump insultò volgarmente la moderatrice Megyn Kelly, con una battutaccia che alludeva al ciclo mestruale. Ma da allora altri conduttori di Fox hanno corteggiato Trump, l’unico che fa salire i rating. La Kelly è su tutte le furie, medita di andarsene e passare alla Cnn.
Ben più distruttivo è l’effetto Trump nel campo repubblicano. «Ha evirato Jeb Bush», è il commento truce e lapidario di Steve Schmidt, uno dei più noti strateghi elettorali della destra. Parole pesanti, ma riflettono lo spettacolo offerto dai comizi elettorali: migliaia o decine di migliaia di persone riempiono stadi agli happening di Trump, poche centinaia di spettatori distratti vanno agli eventi di Bush. Lo stesso Trump ormai lo dileggia apertamente, ogni volta che i due hanno raduni in concomitanza: «Oggi parla anche Bush. E la audience sta dormendo». Altri tentano di salvarsi dall’irrilevanza inseguendo Trump sul suo stesso terreno. Come Marco Rubio, figlio di cubani, che scimmiotta la xenofobia di Trump e ne diventa un patetico imitatore. Difficile imitarlo: nessuno padroneggia la politica-spettacolo quanto l’inventore del reality-show The Apprentice. È come uomo di spettacolo che The Donald ha avuto trionfi; la sua carriera d’immobiliarista è ben più problematica, visto che ha fatto tre volte bancarotta (e non è un self-made man come vorrebbe la leggenda agiografica: ereditò già una bella fortuna dal papà, palazzinaro pure lui).
Le sue ultime uscite sulle tasse lo rivelano capace di una “guerra di movimento”, con cambiamenti di fronte a gran velocità. Promettendo un fisco più egualitario e nuovi prelievi sugli straricchi, Trump sfida quello che sembrava un dogma della destra. È il famoso “giuramento anti-tasse”, inventato dall’ultra-liberista Grover Norquist e appoggiato dai think tank neoconservatori generosamente finanziati dal capitalismo più retrogrado (Fratelli Koch): Americans for Tax Reform, American Enterprise Institute, Club for Growth. Sembrava una regola ferrea del meccanismo elettorale americano: impossibile conquistare la nomination repubblicana, per i candidati che non sottoscrivano quell’impegno solenne. Invece Trump su questo si dimostra “il più reaganiano”: il presidente Ronald Reagan, che
ex post è diventato una divinità maggiore nel Pantheon della destra, non esitò ad aumentare le tasse quando fu necessario per tamponare i deficit.
«Stia zitto, se ne vada, e torni alla sua Univision». Quelle parole continueranno a rimbombare per tutta la campagna elettorale. È con quella frase che Trump cacciò via da una conferenza stampa il noto anchorman Jorge Ramos di Univision, la più grande tv di lingua spagnola negli Stati Uniti. Il danno maggiore che Trump sta facendo ai repubblicani, è sul terreno dell’immigrazione. «Il Messico ci manda qui i suoi stupratori e i suoi rapinatori. Io caccerò via tutti i clandestini. Costruirò un Muro impenetrabile alla frontiera, e costringerò il governo messicano a pagarne le spese». Con questo leitmotiv, Trump si è alienato l’elettorato ispanico e altre minoranze etniche. La sua promessa di deportare 11 milioni di clandestini, ancorché irrealistica, provoca indignazione fra tutti quegli immigrati che ormai sono cittadini e voteranno nel novembre 2016 per scegliere il prossimo presidente. Al tempo stesso, la xenofobia spiega gran parte del successo di Trump: lui fa il pieno tra i “bianchi arrabbiati”, in quella fascia di opinione pubblica che non digerisce la trasformazione inclusiva della società americana, la più multietnica del pianeta. La scommessa sulla xenofobia è sbagliata nei numeri: l’evoluzione demografica fa salire inesorabilmente il peso degli elettori “etnici”. Già nel 2008 e nel 2012 le due sconfitte di John McCain e di Mitt Romney contro Barack Obama furono dovute in gran parte al voto “arcobaleno”: ispanici, asiatici, neri. Ma il meccanismo delle primarie è diabolico: a partire dai due primi test di febbraio (Iowa e New Hampshire), lì vanno a votare soprattutto i motivati, i radicali, gli estremisti. Trump costringe tutto il partito – compreso il moderato Bush – a inseguirlo su un terreno minato.
È di destra. È di sinistra. È un “estremista di centro”. Un populista. Le etichette si sprecano, Trump è il campione di tutte le contraddizioni. Favorevole al diritto di aborto, e giunto al terzo matrimonio (tutte ex-Miss: lui possiede anche il marchio del concorso di Miss Universo), non è proprio l’uomo ideale per la destra religiosa. È stato dichiaratamente democratico, ha staccato assegni per le campagne elettorali di Bill e Hillary Clinton. Ma alla destra piace – oltre alla sua xenofobia – l’idea che lui ha dello Stato come azienda, di se stesso come chief executive degli Stati Uniti d’America. Ricorda qualcuno? Decine di editorialisti americani lo hanno già scritto: Silvio Berlusconi. Le differenze non sono da poco, però. I conflitti d’interesse nel caso di Trump sono minimi (un presidente Usa non ha poteri nell’edilizia che è materia dei sindaci, in questo assetto federalista). Lui non possiede tv o altri media. La sua ricchezza, più vicina ai 4 miliardi che ai 10 da lui proclamati, lo confina a un “modesto” 405esimo posto nella classifica Forbes dei Paperoni americani. Abbastanza ricco però da poter proclamare: “Nessuno mi può comprare”. Questa frase è una delle chiavi del suo successo. Soprattutto a destra, dove il 77% degli elettori repubblicani dicono di volere “un candidato anti-establishment”.
Ma pure Hillary Clinton comincia a preoccuparsi, lei che si vede identificata pericolosamente con l’establishment, i politici di professione. Finora i guru delle campagne prevedevano che una nomination di Trump regalerebbe la vittoria a Hillary. Ma l’uomo dalla zazzera dorata ha già scompaginato tutta la saggezza convenzionale…