Il Messaggero, 1 settembre 2015
Lo strano caso dei sussidi inglesi. In Inghilterra bastano una carta d’identità e un Nin (l’equivalente codice fiscale) per lavorare, ma anche per chiedere i benefit della disoccupazione pari a 100 euro a settimana. Ora David Cameron, nel manifesto elettorale dei conservatori, promette di impedire che vengano dati sussidi a chi lavora nel paese da meno di 4 anni, ma il rischio è quello di dover sottoporre i britannici alla stessa regola per non incorrere nelle infrazioni Ue. Anche il Labour è d’accordo con le restrizioni a benefits, ma forse tutti dovrebbero tenere presente i dati ufficiali che dicono che il 93% dei sussidi entrerebbe nelle tasche dei sudditi di sua Maestà e tra le prime 10 nazionalità a chiedere il restante 7%, gli europei sarebbero solo tre: polacchi al primo posto, seguiti da irlandesi e portoghesi
Ad un cittadino europeo che voglia trasferirsi nel Regno Unito, per ora, serve poco. Una carta d’identità per passare la frontiera e, dopo poco, un”national insurance number” (Nin), un numero identificativo che equivale più o meno al nostro codice fiscale, per lavorare, essere in regola e pagare le tasse nel paese.
Si ottiene solo una volta che ci si è trasferiti e di solito ci vuole qualche settimana per averlo, ma il cosiddetto Nin è obbligatorio se si vuole avere un lavoro con gli stessi diritti di un cittadino britannico. Alcuni datori lo chiedono prima ancora di iniziare, mentre la maggior parte è disposto ad aspettare le poche settimane che trascorrono tra la richiesta e l’ottenimento, che avviene presentando alcuni documenti e facendo una breve intervista, dai toni inquisitori ma non troppo.
Con un mercato del lavoro così flessibile come quello britannico, trovare qualcosa per iniziare non è difficile, ma forse in futuro bisognerà organizzarsi prima e, per trasferirsi nel Regno Unito, occorrerà avere già un lavoro.
O almeno questa è la soluzione delineata dal ministro degli Interni britannico Theresa May per far fronte all’aumento degli arrivi di cittadini da altri Stati Ue, colpevole a suo avviso di aver reso “insostenibile” il numero di stranieri presenti sul suolo britannico.
UN ARTICOLOPer ora si tratta solo di un articolo di giornale, pubblicato domenica sul Sunday Times, e la proposta contenuta è in tale, evidente violazione del principio di libera circolazione dei cittadini europei che difficilmente potrà essere attuata. «L’anno scorso 4 migranti su 10, ossia 63mila persone, sono arrivati senza avere assolutamente nessun lavoro», scrive la May, che non approfondisce cosa intende fare per ovviare al problema.
A suo avviso per riportare il principio di libera circolazione dei cittadini al suo spirito iniziale bisogna impedire che questa equivalga alla «libertà di attraversare i confini alla ricerca di lavoro o per pretendere benefits».
I BENEFITSDue cose estremamente diverse, che vale la pena analizzare. Oggi chi arriva nel Regno Unito può formalmente restare per tre mesi e se si ferma più a lungo deve lavorare o cercare attivamente lavoro o dimostrare di avere fondi sufficienti per mantenersi senza essere a carico dello stato. Chi tenta di frodare il sistema viene espulso, mentre chi riesce a dimostrare di avere legami sufficientemente stretti con il paese può ottenere sussidi da 100 euro a settimana.
Per Theresa May è questa la ragione per la quale occorre rinegoziare la presenza del Regno Unito nella Ue, seguendo le linee del primo ministro David Cameron, che nel manifesto elettorale dei conservatori promette di impedire che vengano dati sussidi a chi lavora nel paese da meno di 4 anni, col risultato che rischia di dover sottoporre i cittadini britannici alla stessa regola per non incorrere nelle infrazioni Ue.
Anche il Labour è d’accordo con le restrizioni a benefits per i cittadini Ue (ma la linea potrebbe cambiare qualora Jeremy Corbyn vincesse la battaglia per la leadership), anche se i dati ufficiali parlano di pochi europei che chiedono benefits: il 93% andrebbe ai britannici, e tra le prime 10 nazionalità a chiedere il restante 7% dei sussidi, gli europei sono solo tre: polacchi al primo posto, seguiti da irlandesi e portoghesi.
May, infine, non fa menzione di quanti soldi portino all’erario britannico le tasse pagate dai cittadini Ue, anche quelli che un lavoro l’hanno trovato sul posto. Un elemento da considerare qualora il Regno Unito decidesse di privarsi di questa enorme risorsa che sono gli stranieri.