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 2015  settembre 01 Martedì calendario

Mamadou Kamara, il diciottenne ivoriano, accusato di aver massacrato nottetempo Vincenzo Solano e Mercedes Ibanez nega tutto. Eppure nel suo borsone sono stati ritrovati pantaloni neri imbrattati di sangue legati da una cinta di Gaudì, il pc portatile, due cellulari, la videocamera, alcune macchine fotografiche e la catenina d’oro tutti riconosciuti da una figlia delle vittime. Il ragazzo, ospite del Cara di Mineo, sostiene di aver trovato tutto in un cassonetto lì di fronte. Peccato che sulla memoria del suo cellulare c’è una foto che lo ritrae con quelli stessi pantaloni neri e una vistosissima cintura di pelle bianca con la scritta «Gaudì» sulla fibbia. Ma lui continua a chiedere: «Ma perché mi tenete qui?»

 «Ma perché mi tenete qui, ma perché non mi lasciate andare a casa?», così, calmo e tranquillo, tutto sommato in un buon francese, continuava a ripetere domenica Mamadou Kamara, pure quando ormai s’erano fatte le undici di sera e nella stanzetta del commissariato di Caltagirone il capo della Squadra Mobile di Catania, Antonio Salvago, dopo tredici lunghissime ore di faccia a faccia, stava ancora lì a domandarsi come potesse questo diciottenne ivoriano restare impassibile davanti all’evidenza. Gli aveva appena detto, il superpoliziotto che somiglia vagamente a Montalbano, di aver scoperto nella memoria del suo cellulare una foto di lui inequivocabile, di Mamadou vestito con dei pantaloni neri e una vistosissima cintura di pelle bianca con la scritta «Gaudì» sulla fibbia. Proprio quel paio di pantaloni neri legati dalla stessa cintura bianca – ma stavolta completamente imbrattati di sangue – ritrovati dentro al borsone che Mamadou aveva con sé domenica mattina al Cara di Mineo e che conteneva però anche il pc portatile, due cellulari, la videocamera, alcune macchine fotografiche e la catenina d’oro tutti riconosciuti da una figlia delle vittime e portati via con violenza inaudita dalla casa di Vincenzo Solano e Mercedes Ibanez, massacrati nottetempo nella loro villetta di Palagonìa. Eppure lui niente, una statua di sale: «Ve l’ho detto, non c’entro nulla, perché mi tenete qui? Tutta quella roba l’ho trovata in un cassonetto sul ciglio della strada, fuori Mineo, quando sono uscito alle 6 del mattino per rientrare quasi subito alle 6 e 20...». Altra bugia colossale, perché agli agenti di guardia al cancello, dove entrate e uscite vengono segnate puntualmente su un registro, Mamadou risulta sì entrato alle 6 e 20, ma alle 6 non è mai uscito di lì. Probabilmente aveva già scavalcato ore prima da qualche parte, intorno al grande recinto.
Sicuro, sfrontato, imperturbabile, anche mentre leggeva la carta dei suoi diritti, nel momento del trasferimento in carcere, a Catania, poco prima di mezzanotte. O forse semplicemente un incosciente. Il questore di Catania, Marcello Cardona, che per anni ha diretto l’ufficio immigrazione a Roma, ammonisce che bisogna stare attenti, ora, ad «associare qualunque reato a un immigrato», perché anzi lui di storie belle legate all’integrazione ne potrebbe raccontare in quantità. In queste ore, però, si è andato a rileggere il modello C3 che Mamadou Kamara compilò alla fine di giugno scorso per richiedere il riconoscimento dello status di rifugiato politico in attesa di essere chiamato a Siracusa davanti alla commissione territoriale del governo. «Non potevo più stare nel mio Paese, la Costa d’Avorio – racconta Mamadou —. Avevo paura per la mia vita, così sono fuggito e sono arrivato in Libia dove ho pagato per imbarcarmi. Sono venuto in Italia in cerca di fortuna».
Lucien Aka Kuamè, 77 anni, presidente dell’Unione Ivoriana di Sicilia, dice che «Mamadou è assolutamente estraneo alla comunità, non lo conosce nessuno e di quello che ha fatto, se vero, risponderà personalmente. Ma sarebbe sbagliato generalizzare». Il ragazzo, com’è noto, sbarcò l’8 giugno a Catania, soccorso insieme a migliaia d’altri come lui dalle navi di Triton. Il giorno dopo era già a Mineo. E qui, dentro al Centro d’accoglienza per richiedenti asilo, gli operatori rivelano – dietro la promessa di un totale anonimato – la vita e le opere del presunto spietato assassino di Palagonìa. «Arrivò il 9 giugno e due giorni dopo, l’11, si presentò per iscriversi al corso di fitness. Lui non è un ragazzo molto alto, diciamo un metro e settanta, ma è molto atletico, muscoloso. Però frequentò il corso solo per una settimana, poi lasciò. Allo stesso modo s’iscrisse subito anche alla scuola di lingua italiana, in aula però si presentò solo due volte. Mai si è affacciato neppure al job center o nei nostri tanti laboratori. Si faceva vedere solo a mensa e al bazar. Qui in Italia, comunque, è arrivato da solo: nessun familiare, nessun parente. All’interno del centro ha legato con gli ivoriani ma anche con ragazzi di altri Paesi dell’Africa». Ed è tra loro che ora stan cercando i suoi complici.