La Stampa, 4 agosto 2015
Quasi tutti i grandi boss di Cosa nostra hanno alle spalle lunghi periodi di latitanze, più o meno dorate, che non hanno inficiato per nulla la capacità di «essere capi» anche stando in clandestinità. Le storie della caccia a Matteo Messina Denaro, Liggi, Riina e Provenzano. Quei capimafia nascosti in casa che nessuno cercava davvero
La clandestinità è un’arte, ma per il mafioso di Cosa nostra è qualcosa di più: una qualità necessaria alla sopravvivenza. Un boss che non sappia mimetizzarsi fino a diventare «invisibile» – specialmente sul proprio territorio – è un capo incompleto, inaffidabile. Per questo quasi tutti i «grandi» di Cosa nostra hanno alle spalle lunghi periodi di latitanze, più o meno dorate, che non hanno inficiato per nulla la capacità di «essere capi» anche stando in clandestinità.
Matteo Messina Denaro è l’ultimo ricercato di Cosa nostra che valga la pena di braccare anche pagando un certo costo in termini di risorse umane e soldi. Dopo di lui, la «qualità» dei quadri rimarrebbe talmente scarsa da rendere «antieconomica» la caccia.
È l’ultimo «figlio d’arte» e, dunque, conosce bene la tecnica della clandestinità. Ma è anche «giovane», rispetto all’età media dei boss che veleggiano sugli ottanta, e perciò la latitanza se la fa in maniera moderna. Cioè senza farsi mancare nulla e senza dover rinunciare ai piaceri della vita, grandi e piccoli.
Le donne
Matteo non è tipo da andarsi a chiudere in una stalla o in un bunkerino ricavato sotto il piatto della doccia (come accadde per uno dei Pulvirenti di Catania). No, Matteo è uomo di mondo, va a Madrid ad operarsi agli occhi e frequenta buona società e belle donne. Una delle ultime volte che è stato sfiorato dai segugi in uniforme, si trovava in vacanza in Grecia con Maria Nesi, l’amante preferita. Era il ‘96 e il boss svernava tra Aspra e Bagheria, protetto dalla donna. Si concesse quello «svago», forte di un documento falso intestato al fantomatico sig. Matteo Cracolici.
Tante volte, Matteo, è stato intercettato grazie alle sue debolezze romantiche, ma l’ha sempre fatta franca. Certo, altra attenzione rivolge alla madre di Lorenza, la figlia luce dei propri occhi, con cui non cerca contatti anche per non coinvolgere lei e la ragazzina in qualche possibile trappola poliziesca. Per questo, se deve stare in giro, lo fa lontano dai propri familiari, specialmente di questi tempi che vedono coinvolti nelle indagini cognati e sorelle.
Sono lontani i tempi in cui Matteo poteva tranquillamente frequentare alberghi e ristoranti di Selinunte, trovando anche il tempo di uccidere qualche sventurato che osava esprimere giudizi sulle donne che lo accompagnavano.
«Caro Svetonio»
Si muove con accortezza, l’ultimo boss. La scorta non lo lascia mai, non usa il cellulare, riduce al minimo le comunicazioni. Anche lui usa i «pizzini», ma questo si sapeva sin da quando fu scoperta una fitta corrispondenza con un professore di Castelvetrano che si firmava col nome dello storico Svetonio. Matteo si faceva chiamare Alessio. Finì male la storia, perché si scoprì che Svetonio scriveva per conto dei servizi segreti che intendevano indurlo a costituirsi e collaborare. Interessantissimo, il carteggio: una specie di trattato filosofico sulla «cultura» di Cosa nostra. Un panegirico ininterrotto del padre di Matteo, quel «mastro Ciccio» morto in clandestinità e restituito ai familiari giusto per poter celebrare i funerali con tanto di necrologio celebrativo. Don Ciccio fu trovato seduto sotto un albero, a pochi passi dalla propria casa. La moglie lo coprì con la sua pelliccia di astrakan e poi organizzò la veglia, ovviamente senza avvertire i carabinieri.
Don Binnu il grafomane
Già, i pizzini. Anche un altro illustre dirigente della mafia li ha usati, nella sua quasi quarantennale clandestinità. E pure lui è andato clandestinamente a Marsiglia ad operarsi alla prostata, riuscendo persino a farsi rimborsare dalla Asl. Esiste un carteggio che riguarda Bernardo Provenzano (latitante dal 1963 al 2006) e Messina Denaro. I pizzini trovati nel rifugio di don Binnu (una masseria che produceva latte, miele e cicoria, in perfetto old style) parlavano di soldi e di alleanze strategiche. Era possibile intravedere un qualche fastidio di Matteo per l’eccessiva produzione di scritti, quasi un rimprovero al vecchio boss ironicamente descritto come un grafomane. Ma oggi, i pizzini sequestrati al cerchio magico di Matteo dicono che il sistema di comunicazione non è stato cambiato.
Provenzano se ne stava a Montagna dei Cavalli, a Corleone, cioè a casa sua. Se dovessero catturare Matteo, nessuna sorpresa se lo trovassero nella provincia di Trapani. Pochi si allontanano dal proprio territorio. Totò Riina fu scovato a Palermo, nel 1993, a 80 chilometri dalla sua Corleone. Era latitante anche lui dal 1963 (dopo la strage di Ciaculli). Ha fatto tutto in clandestinità, don Totò: prima ha seppellito segretamente il cognato, Calogero Bagarella, «caduto» durante la strage di viale Lazio, poi il matrimonio (celebrato da tre preti) segreto in una villa di Capaci. Anche la nascita dei suoi quattro figli è avvenuta in clandestinità, seppure nella clinica privata più importante di Palermo. Riina «doveva» stare a Palermo perché si accingeva al golpe che avrebbe azzerato la mafia palermitana. Stava con moglie e figli in un residence sulla circonvallazione di Palermo.
«Non mi cercava nessuno»
A poca distanza, dagli uffici di un’autoscuola, Provenzano esercitava uno dei suoi ruoli, quello del «ragioniere» che teneva la contabilità degli affari e distribuiva gli introiti. Tutto ciò senza che nessuno si accorgesse di loro. Una svista incredibile che farà dire a Totò Riina, interrogato al maxiprocesso: «Signor presidente, la prego, io non ero latitante. Il fatto è che nessuno mi cercava. Avevo un conto in banca, un’attività lavorativa, quattro figli a scuola. Lei lo chiamerebbe latitante, uno così?».
Esattamente come Luciano Liggio, prima clandestino a Corleone e beccato in una casa insospettabile, tra persone che da Liggio avevano subìto un lutto. Poi evaso da villa Margherita, una clinica romana che lo ospitava senza alcun controllo di polizia. E infine, nel 1974, catturato a Milano, dove, sotto falso nome, gestiva una grande enoteca e si presentava come un uomo tranquillo, sposato e padre di un ragazzo. Ecco, davvero strane queste latitanze. Improbabili, quasi come il «cerchio che – dicono i dispacci ministeriali – si stringe attorno a Messina Denaro». Sono anni che dicono così: speriamo sia la volta buona.