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 2015  agosto 04 Martedì calendario

Milano, la città che verrà. Dieci milioni di biglietti venduti, il bilancio di Expo è salvo. Ma fra tre mesi cosa succederà? Quali sono i progetti a lungo termine, quali sono le cose da salvare in fretta prima che vengano abbandonate, e poi che ne l’eredità dei temi trattati — non solo più Cibo e Cultura ma ora anche Acqua, con l’antica proposta prodiana di una Authority appena rilanciata dal commissario Sala – e come si potrà per tradurre tutto questo in realtà?

Sette anni più tre mesi di strada ormai fatta. E soltanto altri tre mesi per chiudere il conto: ma con l’aggiunta di una vita intera, da lì in poi, ancora tutta da decidere. Eccolo qua, in sintesi, il giro di boa dell’Expo.
Pensata per sparare tutte le sue cartucce nel semestre canonico delle esposizioni universali ma con l’ambizioso obiettivo di raccontare lo ying e lo yang dell’intero pianeta, cioè il miracolo millenario del cibo e il dramma ancora irrisolto della fame, la grande macchina è arrivata a metà corsa con dieci milioni di biglietti venduti: cioè la metà dei venti che se il ritmo non molla – è il calcolo del commissario Giuseppe Sala – consentiranno di arrivare al traguardo senza debiti alle spalle. Da quella linea però partirà la corsa successiva, l’unica che ora conta: cosa si farà su quel milione di metri quadri che oggi si chiama Expo e domani chissà, cosa lasceranno in eredità a Milano e all’Italia tutti i soldi e i discorsi di questi sette anni e sei mesi.
Progetti e idee ce ne sono, tempo da perdere no. Anzi come sempre è già tardi. Ma una sintesi si può fare e va divisa in quattro capitoli: i progetti a lungo termine, che vuol dire anche urbanistici sul futuro di Milano; le cose da salvare in fretta e usare subito, perché un’area in fondo fragile come questa non finisca alle bisce prima ancora che si decida chi dovrà andare a tagliar l’erba; l’eredità dei temi trattati – non solo più Cibo e Cultura ma ora anche Acqua, con l’antica proposta prodiana di una Authority appena rilanciata dal commissario Sala – se non altro per non disperdere il tanto lavoro comunque prodotto; infine quel che servirà per tradurre tutto questo in realtà, a cominciare da una governance che ancora è confusa e con l’invocazione già serpeggiante per la nomina di un commissario anche qui. Perché «senza poteri – è il ritornello – non si va da nessuna parte».
1 – La città che verrà, ma tra due anni
Sul fronte dei progetti a lungo termine i soggetti finora in campo sono tre, anzi tre più uno. Il primo è l’Universita Statale di Milano, il cui rettore Gianluca Vago propone da mesi di far dell’area Expo una cittadella universitaria e trasferirvi – ampliandole – le facoltà scientifiche di Città Studi.
Poi c’è Assolombarda, che ha lanciato l’idea di un polo della scienza e della tecnologia. Tutto questo mesi fa. Finché a fare una sintesi dei due progetti, aggiungendone un terzo, si è fatto avanti lo Stato in persona attraverso la Cassa depositi e prestiti che con l’Agenzia del demanio ha prodotto un dossier con dei numeri.
L’idea è quella di accorpare alle due già formulate da Università e Assolombarda anche una cittadella dei servizi pubblici, che in 110 mila metri quadri dovrebbe riunire le sedi di varie funzioni oggi sparse per la città di Milano. Un preventivo di 220 milioni per quest’ultimo capitolo e di 540 per il trasloco dell’università, su un totale di 440 mila metri quadri e con la salvaguardia dei rimanenti 500 mila di verde che fin dall’inizio di Expo è condizione di ogni altra cosa.
L’altra condizione è quella che chiama in causa il quarto soggetto di cui sopra: vale a dire l’advisor cui la società Arexpo, proprietaria e responsabile di tutta l’area in questione, ha dovuto affidare previa gara pubblica – in obbedienza alle prescrizioni dell’Authority anticorruzione di Raffaele Cantone – il compito di vagliare tutte quante le proposte sul tappeto. Il ruolo, per la cronaca, se lo sono aggiudicati per 31.500 euro gli ingegneri e architetti dello gruppo Arcotecnica e dello studio M&F con la consulenza di alcuni prof del Politecnico. Per dare il proprio parere hanno 90 giorni. Se li useranno tutti è un parere che arriverà a Expo già finita. I lavori per questo «dopo Expo del futuro», in ogni caso, tra una cosa e l’altra non inizieranno prima del 2017.
2 – Il «Fast Expo» che serve subito
Ecco perché nel frattempo bisogna muoversi su un altro piano. Certo, il regolamento internazionale di Expo dice, come regola generale, che a esposizione finita sia tutto smontato e l’area venga restituita vergine. In realtà qui ci sono almeno quattro cose che, sin dal principio, sono state concepite per restare: il verde di cui si è detto, Palazzo Italia (sapere cosa farci è un altro paio di maniche), Cascina Triulza (che continuerà a ospitare onlus e gruppi della società civile) e il grande Open Air Theatre (per eventi e concerti). Per il resto, regolamento alla mano, dopo il primo novembre entreranno sul sito le ruspe. «Un delitto», hanno già detto in tanti.
E infatti c’è già un nutrito elenco di padiglioni e strutture che si vorrebbero salvare. Il governatore lombardo Roberto Maroni lo ha chiamato progetto «Fast Expo»: per un loro utilizzo magari temporaneo ma immediato. In primo luogo il Padiglione Zero di Davide Rampello e Marco De Lucchi, considerato cuore tematico dell’esposizione e stravotato dai visitatori come attrazione vincente. Poi l’Expo Media Centre, che potrebbe diventare un museo. E le «stecche» dei ristoranti e servizi. Magari con l’aggiunta di una copertura all’Open Theatre di cui sopra, per usarlo anche d’inverno. E magari senza svuotare Palazzo Italia, mantenendone vive le mostre attuali.
Ci sono poi Paesi che hanno «dato la loro disponibilità» a lasciare i propri padiglioni sul sito. Il che è in molti casi (succede in tutte le edizioni Expo da sempre, sorride il segretario del Bureau international Vincente Loscertales) una generosità solo apparente perché smontare e riportarsi a casa un padiglione costa quanto costruirlo: e il rischio, se si accetta il «regalo» senza un piano di utilizzo, è di ritrovarsi dopo un anno con una serie di scatoloni marci da smaltire.
Altri invece, dagli Emirati al Brasile, sanno già non solo che i propri padiglioni se li riporteranno via ma anche cosa ne faranno. I più bravi.
Con l’aggiunta di un problemino da niente che si chiama manutenzione immediata: quando l’Expo sarò finita chi si occuperà del verde, pulirà i canali, vigilerà sull’area perché non vada tutto in malora prima dell’inverno?
3 – I contenuti da salvare
Poi c’è la questione delle «eredità immateriali». Rampello, l’inventore del padiglione Zero, su questo ha una idea molto precisa: «I progetti possono anche essere realizzati separatamente, ma a monte deve esserci una idea unitaria e coerente attorno a una parola chiave che è cultura».
Tre concetti cresciuti attorno e dentro l’Expo si richiamano in effetti con forza. Il primo è la Carta di Milano sul tema della lotta alla fame e allo spreco alimentare, che verrà presentata in settembre al segretario dell’Onu Ban Ki Moon. Il secondo è di pochi giorni fa ed è la riunione —la prima in assoluto nella storia – di 83 ministri della cultura venuti proprio all’Expo da tutto il mondo per sottoscrivere un documento comune a tutela dei patrimoni dell’umanità. Il terzo è il rilancio di Milano come sede dell’Authority dell’acqua. Cibo, cultura, acqua: cosa di più? Rampello sintetizza: «Appunto, stiamo parlando di un filo conduttore unico. Cultura ha la stessa radice di agri-coltura. Questa è l’occasione per proteggere la memoria dei “saperi” nel senso concreto del termine, di quel saper “fare con le mani” che significa anche un diverso modo di pensare. L’eredità di questa Expo si deve chiamare “sintesi”.
Tra la memoria madre del nostro passato e la sua prosecuzione nel futuro che una cittadella dell’università e della scienza naturalmente rappresenta».
4 -Cercasi governance (e commissario)
Detto tutto questo, il nodo vero da sbrogliare in anticipo è sempre lo stesso che (fatti i debiti scongiuri) paralizzò l’avvio dell’Expo sette anni fa per i primi quattro: decidere chi comanda.
Le società Expo e Arexpo non sono la stessa cosa. Alla prima, controllata da Comune di Milano, Regione Lombardia e Governo, spettava la realizzazione e gestione dell’evento e in teoria esce di scena con la sua fine il 31 ottobre.
La seconda, che invece è proprietaria dei terreni e dovrebbe occuparsi del loro futuro, oltre a Comune e Regione ha dentro Fondazione Fiera e Comune di Rho: ma non il Governo. Che per metter soldi e testa su quanto si è cercato di riassumere fin qui vorrebbe ovviamente aver voce in capitolo.
Una ipotesi è che ci entri comprandone un pezzo dalla Fiera e poi garantendosi la maggioranza relativa con un aumento di capitale. Certo senza un accordo sarà dura.
«Posso aiutare da fuori – dice Sala – ma nel dopo Expo non entro». E la soluzione di un commissario per uscire dall’impasse, presto o tardi, non stupirebbe più nessuno.