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 2015  agosto 03 Lunedì calendario

Le nostre vacanze sempre più corte. C’è chi passa in villeggiatura un mese, ma a basso costo, e chi parte per periodi brevi pur di non rinunciare agli standard di lusso. I portoghesi resteranno a casa, i giapponesi ligi al dovere staccano dal lavoro col senso di colpa. Paese che vai, modo di fare il turista che trovi. I sociologi concordano: lo stile di viaggio riflette le nostre origini

Dimmi che vacanza fai e ti dirò chi sei. Gli spagnoli hanno 22 giorni di ferie pagate l’anno e li consumano tutti d’un fiato. Come i francesi, più fortunati, che arrivano a un mese di stacco. Il periodo già breve dei giapponesi, due settimane scarse, è per giunta poco goduto perché vivono il tempo lontano dall’ufficio con il senso di colpa. Gli italiani sognano a occhi aperti il viaggio della vita, ma poi partono per periodi sempre più brevi e con lo smartphone perennemente in mano, pronti a sbirciare le email di lavoro.
«La durata della villeggiatura non è però un indicatore assoluto di ricchezza o relax», dice la storica del turismo Annunziata Berrino. «Dipende più dalla cultura di appartenenza: possiamo avere un periodo lunghissimo, ma a basso costo, come fanno i popoli del Nord Europa, gli olandesi per esempio, che amano i viaggi semplici e in bicicletta. O una settimana striminzita ma agli standard massimi del lusso degli orientali».
Paese che vai, vacanza che trovi. «In nessun altro contesto come quello turistico si può dire “dimmi che turismo fai e ti dirò chi sei” – continua Berrino – osservando lo stile di ogni viaggiatore si può risalire al tipo di società a cui appartiene. Non solo: il periodo storico in cui la pratica turistica si è diffusa nelle varie parti del mondo ha influenzato il modo dei popoli di vivere la vacanza».
In Gran Bretagna, per esempio, è arrivata durante il Romanticismo e ha sviluppato l’amore degli inglesi per la natura, la loro sensibilità per i posti più remoti e struggenti come le campagne o le isole. «Lo stesso è successo per i tedeschi, che prediligono il contatto con la natura allo stato più brado: sono dei grandi campeggiatori» prosegue Berrino. «Gli italiani d’estate sono orientati alla balneazione perché il turismo si è affermato nel secondo dopoguerra con la villeggiatura al mare. Mentre i cinesi scoprono ora le spiagge, ma non vogliono abbronzarsi: ci vanno con le maschere, tutti coperti, e amano lo shopping. Per loro Milano è più via della Spiga che il Duomo». Dire gli italiani vanno al mare, gli inglesi sulle isole e gli americani nei parchi a tema sicuramente è una generalizzazione, ma dà un’idea di quali siano le tendenze più in voga nei vari angoli del mondo.
Gli italiani, per esempio, in tempi di conti correnti magri fanno le formichine con i giorni di ferie: ogni anno, dice uno studio condotto da Northstar per Expedia, ne mettono da parte sette in attesa di tempi migliori, quando avranno abbastanza risparmi per un’estate da re. Tempi che, ahinoi, non arrivano mai: solo il 17 per cento dei vacanzieri, dice l’ultimo sondaggio Eurobarometro, trascorre fuori più di 13 notti consecutive, mentre il 21 per cento resta a casa per mancanza di soldi o di voglia di pianificare.
Senza aria di partenza in vista, il tesoretto di giorni liberi cresce e purtroppo si affievolisce la speranza di farseli pagare: «Tenersi i giorni da parte è un atteggiamento da periodo di vacche grasse», spiega Elena Oriani, responsabile di business information alla Mercer Italia, società di consulenza per le risorse umane. «In questi anni di crisi, le aziende hanno forzato la mano in modo che i dipendenti godessero gli arretrati. I paesi europei si trovano in una fascia medio alta per giorni di ferie disponibili. Circa quattro settimane. In Giappone sono molto tirati, negli Stati Uniti sono legati alla discrezionalità delle aziende».
Chi troppo e chi niente. In base all’ultimo rapporto del Center for economic and politic research, gli austriaci sono quelli con più giorni di svago a disposizione ogni anno: 35, cioè 22 di ferie più 13 festività pagate, tendenzialmente consumati tutti. Lo stesso primato spettava fino a qualche mese fa ai portoghesi: avevano 35 giorni, poi quattro festività sono state “congelate” fino al 2018 per combattere la recessione. Un’idea simile era balenata nella rovente estate del 2012 anche in Italia: l’allora sottosegretario al Tesoro Gianfranco Polillo propose di rinunciare a cinque giorni di riposo per far crescere di un punto il Pil, ma il suggerimento fu rispedito al mittente dai sindacati e dall’opinione pubblica sfiancata dal caldo.
I portoghesi, invece, l’addio alla vacanza lo hanno dato sul serio: quest’estate uno su quattro non parte affatto, così come gli estoni e gli ungheresi. Mentre quelli che fanno soggiorni più lunghi sono gli olandesi (il 35 per cento, oltre uno su tre, va in vacanza almeno due settimane), gli inglesi (29 per cento) e i francesi (26 per cento).
Dei giapponesi, ligi al dovere, si è già detto: fanno una manciata di giorni ma cominciano a pianificarli con mesi d’anticipo. «Sono iper programmatori e meticolosi, si rilassano poco. Non vivono alla giornata e i più anziani sono torturati dal senso di colpa per aver lasciato l’azienda», spiega l’esperto di marketing del turismo Giancarlo Dall’Ara, teorico dell’albergo diffuso. Ciò che spinge gli orientali a spostarsi è lo status symbol che il viaggio rappresenta. «Dal Vietnam alla Corea hanno tutti una fortissima attenzione per la “faccia” – continua – preferiscono i grandi alberghi e i grandi ristoranti perché aumentano la loro reputazione e per riportarsi a casa capi griffati vanno all’outlet, per loro un tempio dei desideri. Fanno soggiorni più brevi ma sfarzosi».
Poi ci sono gli americani, con il loro spirito da pionieri. «Cercano vacanze fuori dai sentieri battuti, hanno la spinta a andare più lontano e prima degli altri. Sono scopritori di località», dice Dall’Ara. Secondo lui la vera novità del modo di viaggiare, che accomuna tutti, è la ricerca del “bene relazionale”, cioè del rapporto con le persone del luogo. «Nel turismo di massa contavano i must: andavi a Parigi per vedere il Louvre e la Torre Eiffel, comprare il souvenir e spedire la cartolina. Oggi si cerca qualcosa di autentico e unico: come sedere a un bistrot e parlare con gli altri clienti».
Una sorta di “nomadismo” secondo la definizione del sociologo Asterio Savelli. «Siamo in una fase in cui le nuove tecnologie e la globalizzazione delle conoscenze spingono alla ricerca di esperienze solo nostre, che ci differenzino dagli altri», riflette. Da qui la brevità, la frammentazione dei soggiorni e la tendenza a fare scorta di ferie.
«Ci si tiene da parte una riserva funzionale alla valorizzazione di se stessi, rivolta anche a un mix tra lavoro e tempo libero: cioè esperienze non per forza retribuite ma che stimolino la creatività. Un ibrido che dà il relax della vacanza, ma aiuta anche il lavoro e così giustifica il non staccare mai completamente la spina, come continuare a controllare l’email dell’ufficio quando si è fuori».