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 2015  agosto 03 Lunedì calendario

Alessandro De Rose, il tuffatore delle grandi altezze che fa a botte con Tyson e cammina come un pinguino. Il ventunenne di Cosenza, l’unico azzurro in questa disciplina all’esordio mondiale, ha realizzato il suo sogno, quello di volare. Ma lo fa a caro prezzo: «Ha presente il nono piano di un palazzo? Mi lancio da lì: 27 metri, 3 secondi di volo, impatto nell’acqua, di piedi, a 90 all’ora. Lo stress fisico è pazzesco»

L’uomo sogna di volare, e qualche volta ci riesce. «Io lo faccio ogni volta che mi tuffo, solo allora mi sento libero, non ho più pensieri e la vita di tutti i giorni non esiste più». Alessandro De Rose, 21 anni, di Cosenza, è il primo, e finora unico, cliff diver italiano, il nostro azzurro in una disciplina all’esordio mondiale. Tradotto, cliff diver è il tuffatore dalle grandi altezze. Ma significa molto di più. «È un’esperienza limite, mi viene la pelle d’oca solo a raccontarlo».
Proviamoci.
«Ha presente il nono piano di un palazzo? Mi lancio da lì: 27 metri, 3 secondi di volo, impatto nell’acqua, di piedi, a 90 all’ora. È come fare a botte con Tyson e alla fine vince sempre lui. Lo stress fisico è pazzesco: quando esci cammini come un pinguino».
Ci dev’essere un premio nascosto, giusto?
«L’adrenalina, il gusto di volare. E poi io sono una persona molto arrogante».
In che senso?
«Sono sempre certo che andrà bene, e sa perché? Perché il controllo in questa disciplina ce l’ha l’uomo. Qui è più sicuro che il bungee jumping o il paracadutismo e il motivo è semplice: è tutto nelle mie mani, conosco i miei limiti».
Nel suo caso conta anche molto da dove è partito.
«Ho cominciato bambino, a Cosenza. Tuffi “normali”. Poi a 14 anni è morto papà e tutto è cambiato. In famiglia avevamo problemi economici, mancavano i soldi per iscrivermi in piscina, la mia società mi ha scaricato. Ho smesso tre anni».
È allora che sono arrivati la furia e un tatuaggio che è diventato famoso...
«Ero rimasto solo e mi avevano tolto l’unica mia passione. Quelle due pistole sulla schiena e la scritta “vendetta” sono state un grido di rabbia”.
C’è ancora?
«Ora l’ho metabolizzata. I tuffi hanno funzionato da terapia alla depressione e mi hanno evitato strade pericolose».
Già, perché poi i tuffi li ha ritrovati a 17 anni.
«Per fortuna ho trovato un impiego in un parco acquatico vicino Roma: mi esibivo tuffandomi dai 3 e dai 5 metri, lo stipendio era buono, in più mi allenavo, insomma tornavo alla vita. Poi un giorno faccio la scoperta decisiva: nel parco c’erano colleghi che si tuffavano dai 20 metri. Mi pareva una follia, ma poi ho scoperto che pagavano meglio. In più uno di loro, un certo Jonathan, mi sfidava, mi diceva che non ne sarei stato capace, cose così. Secondo lei che cosa ho fatto?».
Adesso è qui, sta nel circuito mondiale Red Bull e oggi a Kazan rappresenta l’Italia...
«Un sogno. Quando papà se n’è andato, gli ho lasciato nel taschino la mia prima medaglia che avevo vinto a 11 anni promettendogli che l’avrei reso orgoglioso di me. Ora sogno di entrare nella top ten».
La sua allenatrice, Nicole Belsasso, è anche la sua fidanzata.
«Con lei vivo una doppia passione: a casa coppia, in allenamento professionisti».
Lei è anche allenatore.
«Sì, lavorare con i ragazzini è appagante. Naturalmente, parliamo di tuffi normali. Ma mi piacerebbe un giorno vedere che c’è una scuola italiana di cliff diving che ho contribuito a creare».
I colleghi tradizionali come Tania Cagnotto che le dicono?
«”Tu sei fuori! Che problemi hai?”. Si scherza assieme. In realtà c’è molto rispetto».
Se uno di loro un giorno volesse provare, che consiglio gli darebbe?
«Buttarsi senza incertezze. Pensare troppo, a volte nello sport fa male. Ah, e non guardare mai giù mentre sali la scaletta! Quando poi voli, senti l’acqua e capisci che ce l’hai fatta scoprirai che questa è una droga che non fa male».