Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  luglio 30 Giovedì calendario

È caos nel mondo del volley azzurro. Il ct Mauro Berruto sbatte la porta e se ne va dopo le polemiche per la sua decisione di punire i giocatori in Brasile: «Mi hanno lasciato solo. Ho dovuto leggere cose indegne. Non ho potuto difendermi e quindi non c’è più stata fiducia»

Il finale era già scritto, a pensarci ora. Mauro Berruto, il ct della nazionale italiana maschile di volley, ha lasciato l’incarico. Berruto non è un coach qualsiasi, è un tecnico riconosciuto in tutto il mondo. La conseguenza del suo passo indietro è il caos nel mondo del volley azzurro, a un mese dalle prime qualificazioni olimpiche. Il perché del gesto? Bisogna tornare al 13 luglio, Rio de Janeiro, finali di World League: quattro azzurri fanno una notte brava: Dragan Travica, Ivan Zaytsev, Giulio Sabbi e Luigi Randazzo e vengono rimandati a casa. Da quel giorno la pace sociale finisce.
Berruto, sul suo sito internet ha scritto: ‘Grazie, mi fermo qui’.
«Non potevo fare altrimenti».
In che senso?
«Ci sono delle cose che non sono negoziabili. E i valori sono tra queste».
Eppure aveva avuto sostegno, dopo la decisione punitiva.
«All’inizio. Poi c’è stata una virata, e siamo arrivati a questo punto».
Una virata? E di che tipo?
«C’è poco da essere diplomatici: se la Lega volley interviene a gamba tesa su di me, se un presidente di club chiede il cambio di ct in un momento ufficiale, anche di festa, si comprende che la solidarietà iniziale è svanita».
Lega, dice? E la Federazione?
«Non ha potuto. E quindi io non ho più avvertito fiducia nel mio operato».
Una scelta di grande esempio: il passo indietro in Italia è scomparso.
«Non ci sono secondi fini, non ho pensato a mie ricollocazioni professionali o altro».
Resta a gestire le giovanili.
«La mia mission. Sa che subito dopo Rio ho avuto tanti di quesi messaggi, di tecnici che dicevano ‘ci hai dato la possibilità di educare i giovani, di potergli dire: guarda cosa succede se ti comporti così’?».
L’attestato di stima migliore.
«E questo voglio spiegare ai ragazzi».
Ha anche lanciato un j’accuse, contro i social network.
«Non contro, ma sull’abuso. Purtroppo ho dovuto leggere delle cose indegne. Per questo spero che i miei figli non le vedano. Comprendo che questo è il tipo di comunicazione del mondo di oggi, ma le persone hanno sentimenti che non si possono calpestare così, tanto per colpire».
È una vittima del sistema.
«Oggettivamente. Ma non avrei mai cambiato di una virgola quel che ho fatto».
Ha pensato di fregarsene delle reazioni dei club e andare avanti lo stesso?
«Avrei potuto chiudere gli occhi a Rio.
Ma non era giusto. Sul rispetto delle regole non si può soprassedere».
I suoi sentimenti?
«Dolore. Allenare la nazionale era il mio sogno di bambino. I 134 inni di Mameli non li dimentico».
C’è anche qualcos’altro.
«La fotografia sul podio olimpico, a Londra 2012. L’onore più grande che potesse immaginare un ragazzo come me, che aveva cominciato ad allenare in un oratorio della sua città».
E il ricollocamento professionale?
«Dopo aver guidato l’Italia? Dopo sette medaglie? Non ci penso proprio. Oggi non è il giorno giusto. Oggi proprio no».