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 2015  luglio 30 Giovedì calendario

È morta Livia Danese, la signora Andreotti. Una romana minuta, colta e riservata, con una ironia insospettabile. Giulio le chiese di sposarla tornando dal camposanto, dopo un bombardamento, le offrì un anellino e una pagnotta. In casa veniva chiamata la Colonnella perché educava i figli «con una rigidità da Gestapo», li metteva in fila per il triste rito del taglio dei capelli («Più che tagliarci i capelli ci tosava tutti e quattro»), e poi cuciva per loro vestiti e grembiuli («terribili»)

«Giulio mi faceva la corte con una tale discrezione che non me ne ero accorta», raccontava con una punta di civetteria. Livia Danese in Andreotti era fatta così: una signora romana minuta, colta e riservata, con una ironia insospettabile. Quel ragazzo magro, alto, serissimo e un po’ curvo sin da giovane, l’aveva sorpresa con strani regali: come un paio di calze risultate una più lunga e una più corta.
Livia dominava la sua famiglia con piglio così autoritario da meritarsi il nomignolo di «Colonnella». Il figlio Stefano e la figlia Serena raccontavano che la mamma li educava «con una rigidità da Gestapo». Ricordavano sempre il triste rito del taglio dei capelli quando venivano messi in fila e affidati a un barbiere che la madre convocava ogni due o tre mesi. «Più che tagliarci i capelli ci tosava tutti e quattro, i due maschi e le due femmine. Capelli a spazzola per tutti». Livia Andreotti aveva anche il vezzo di cucire a macchina. «Il risultato era che i nostri grembiuli scolastici li faceva lei. Ma invece di farli con i bottoni davanti, li metteva dietro. A volte ci confezionava pure i vestiti. Terribili».
Ma pubblicamente Livia Andreotti (nata nel 1921) era un personaggio sconosciuto, invisibile se non nella cerchia ristretta degli amici, e anche la sua scomparsa è stata discreta. Da anni la signora viveva in un suo mondo nell’appartamento di famiglia in corso Vittorio Emanuele, affacciato sul Tevere e sul Vaticano. Era assistita e visitata costantemente dai figli e dalle figlie, anonimi per il grande pubblico come lei.
La malattia che l’aveva colpita negli ultimi anni le aveva almeno risparmiato la sofferenza di rendersi conto della morte del marito. Erano stati insieme per più di sessant’anni, condividendo la gloria del potere e il deserto sociale quando Andreotti era stato processato. Si erano conosciuti nel 1943 e sino a ieri Livia Danese in Andreotti è stata la vera personalità forte della famiglia: persino quando, spaventata dalle minacce delle Brigate rosse al marito negli anni Settanta e dai processi per mafia negli anni Novanta, aveva mostrato un’improvvisa fragilità cadendo in una brutta depressione.
Lei aveva tenuto insieme la famiglia di quel politico democristiano spesso assente, e associato alle tenebre del potere per antonomasia. Lei sorprendeva gli intervistatori ammettendo di essere stata affascinata dallo «sguardo penetrante di Giulio».
Per capire e completare le immagini di quel personaggio controverso, la signora Livia era essenziale: anche se pochi lo capivano perché lei si sottraeva a qualunque protagonismo. Eppure, l’arguzia andreottiana era sua quanto e forse più del marito, seppure riservata soltanto alla famiglia. Fu lei a raccontare che, durante la Seconda guerra mondiale, i Danese chiesero alla figlia di andare al camposanto a vedere se la tomba di famiglia era stata danneggiata. Andreotti la accompagnò. «E mentre tornavamo – raccontava Livia – mi fece un lungo discorso dal quale emerse una novità: mi chiedeva di sposarlo. Non pretendeva una risposta immediata, mi disse che potevo pensarci anche a lungo. Io, invece, gli risposi di impulso di sì». Come regalo di fidanzamento, ricordava con la sua erre francese, Giulio le regalò un anellino con brillante e rubino, e una forma di pane casareccio: dono prezioso in tempo di guerra. Guarda il caso, a Giulio, la pagnotta era stata regalata da un amico cardinale.
I funerali si terranno domani alle 9 nella basilica di San Giovanni dei Fiorentini a Roma.