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 2015  luglio 28 Martedì calendario

Attenti alla Csf, la società cinese che da statuto promette di «implementare scrupolosamente le decisioni del Diciottesimo Congresso del Partito» e che potrebbe influenzare la più nota Fed che resta indecisa sul quando alzare i tassi d’interesse americani. Se dall’Oriente verranno altri e nuovi segnali di declino, anche la Fed potrebbe decidere di ritardare un inasprimento della politica monetaria

Csf, China Securities Financial. Tenete a mente il nome di questa società che da statuto promette di «implementare scrupolosamente le decisioni del Diciottesimo Congresso del Partito».
È la Csf, infatti, che sta controllando per conto del governo di Pechino l’alta e bassa marea di liquidità sulle Borse cinesi, con onde destinate a infrangersi – come ieri – sui mercati finanziari di tutto il mondo. Dopo il crollo iniziale della Borsa di Shanghai nella seconda metà di giugno è stata la Csf – controllata interamente da soggetti pubblici, tra cui la stessa Borsa di Shanghai e quella di Shenzen – a far arrivare fondi della Banca centrale agli intermediari di Borsa, in modo da sostenere artificiosamente le quotazioni. E ieri è stata proprio la Csf a mancare all’appello mentre le stesse quotazioni piombavano a terra. 

Così la Csf potrebbe avere un ruolo, seppure indiretto, anche nel condizionare le decisioni di una sigla assai più famosa come la Fed, quella Federal Reserve che deve decidere non se, ma quando, alzare i tassi d’interesse americani. Se dall’Oriente verranno altri e nuovi segnali di declino, anche la Fed potrebbe decidere di ritardare un inasprimento della politica monetaria. 
I segnali, va detto, non sono pochi: c’è la Borsa di Shanghai, certo, che ieri ha vissuto la sua giornata peggiore dal lontano 2007. Ma dietro l’andamento degli indici c’è anche un rallentamento dell’economia cinese che mette ansia agli investitori: quest’anno, per la prima volta dal 1990 il Pil dovrebbe crescere di un «misero» 7%. Risultato peraltro non scontato e dal quale dipendono in parte anche le sorti dello stesso presidente Xi Jiping e del premier Li Keqiang. 
E timori ci sono anche per l’inflazione. Che il prezzo della carne di maiale sia ai massimi da tre anni a questa parte potrà non sembrare una grande notizia alle nostre latitudini, ma è invece una notizia che pesa parecchio sulla borsa della spesa di una massaia cinese. Prezzi alimentari in ascesa significano rischio di maggiore inflazione e per combattere l’inflazione la Banca centrale potrebbe essere costretta ad alzare i tassi che ha abbassato l’ultima volta proprio il 27 giugno, sperando proprio di rianimare la Borsa. 
Ma una crisi economica cinese può colpire anche l’economia di Usa e Europa? E se sì, in che modo? Per gli Stati Uniti, dove la Cina è il terzo Paese verso cui si esporta dopo Canada e Messico, il problema in termini di economia reale non è enorme: l’export complessivo rappresenta solo il 13% del Pil Usa, visto che l’economia americana si regge più che altro sulla domanda interna. Così, anche se i consumatori cinesi rallenteranno i loro acquisti di beni americani – nei primi cinque mesi di quest’anno ne hanno comprati per 46 miliardi di dollari – gli effetti pratici sugli Stati Uniti non saranno devastanti. Qualche problema in più – ma sempre abbastanza limitato – per l’Ue, che vede nella Cina il secondo partner commerciale dopo gli Stati Uniti e che l’anno scorso ha esportato merci per 165 miliardi di euro. 
Poco o niente di cui preoccuparsi, allora? Purtroppo non è così. In primo luogo perché lo scoppio della bolla finanziaria cinese (dal giugno 2014 al giugno scorso Shanghai aveva guadagnato il 150%) evidenzia tutti i problemi di un sistema unico al mondo – economia di mercato e dirigismo spinto uniti in un abbraccio impossibile – sul quale nessuno si è fino a quando la Borsa saliva. 
Adesso, se il governo cinese non dovesse più intervenire per frenare la caduta delle quotazioni, gli effetti del crollo di Borsa potrebbero diventare più gravi; ma allo stesso modo, se Pechino deciderà di curare ancora una volta i malanni della finanza con le strategie del Partito e qualche intervento della solita Csf l’anomalia cinese sarà confermata. E in un’epoca di mercati sempre più interdipendenti – assieme le Borse cinesi rappresentano il secondo mercato dopo Wall Street – quanto ci si potrà permettere questa anomalia? 
E poi resta da vedere quanto lo stesso potere politico di Pechino possa fare i conti con una crisi finanziaria ed economica: quelli che oggi vedono cadere le quotazioni dei loro titoli – racconta l’Economist – sono all’80% piccoli investitori attratti dai guadagni facili, e spesso giovani di una classe media finora emergente. Se Pechino dovesse tradire la promessa fatta con la grande corsa alla Borsa gli effetti potrebbero essere anche più ampi di un semplice crollo finanziario.