la Repubblica, 28 luglio 2015
L’ultimo incontro con Sebastiano Vassalli. «Sono cresciuto facendo esperienza di odio, abbandonato dai miei, ma alla fine ho fatto esperienza d’amore, d’essere amato, anche in questo letto». L’ultima speranza però non è Dio, «non l’ho mai incontrato neanche a Napoli», ma la letteratura: «Spero che sia vero, non l’ultima illusione». E poi un’anticipazione sull’ultimo libro: «Soltanto le ultime quattro parole del romanzo, che sono forse il mio epitaffio: “Ho raccontato l’Italia”»
«Io sono un nulla che ha sognato molto» ha ripetuto Sebastiano Vassalli negli ultimi giorni in cui il destino lo ha fatto oscillare su un’altalena d’angoscia: fra la luce della candidatura al premio Nobel 2015 e il buio di un improvviso male incurabile, tenuto per sé fino all’ultimo nello stile solitario di un’eremita laico della scrittura. Qui sono trascritti gli appunti di un dialogo iniziato nelle ultime settimane e terminato la scorsa notte, quando lo scrittore è «uscito dal rumore», come ha fatto nei suoi romanzi storici che non voleva chiamare così perché, diceva, «per cercare le chiavi del presente bisogna andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla». Dal suo letto nell’hospice di Casale Monferrato si aggrappava alla mano della moglie Paola, la penna non riusciva più a tenerla e così a lui che non ha mai usato il computer restava solo la voce: «Come Omero, il padre di noi narratori. Finché resteranno in vita due persone, ci sarà chi racconta una storia e chi l’ascolta». Nei momenti di lucidità aveva ancora storie da raccontare: «Penso tanto, ma penso soprattutto storie: storie di guerra. Il conflitto è ciò che ci fa più male e perciò dobbiamo comprenderlo».
La letteratura salva? La sua risposta arrivava lentamente: «Spero sia vero, non l’ultima illusione». Viene in mente quanto scrive in Amore lontano dove narra la vita di poeti prima della morte: la poesia «è vita che rimane impigliata in una trama di parole». È questa l’unica speranza, non è Dio? «Non l’ho mai incontrato – rispondeva – Neppure a Napoli, dove Dio e il Diavolo sembrano aver trovato un equilibro». Napoli? «Sì, qui ho ambientato l’ultimo romanzo, finito con gran fatica a dispetto di questa dannatissima malattia».
Per scaramanzia ha voluto sempre mantenere il segreto sul contenuto ma il titolo sarà Io, Partenope: «Sono tornato ancora nel Seicento, dove nasce il carattere nazionale degli italiani». È una città che ami? «A Napoli tutto è possibile. E poi si scopre una sapienza istintiva: i napoletani sono in grado di inventare soluzioni anche nella tragedie. Ne avrei bisogno per questa mia tragedia…». Un’anticipazione? «Soltanto le ultime quattro parole del romanzo, che sono forse il mio epitaffio: “Ho raccontato l’Italia”». Perché hai iniziato a scrivere? «Mi mancava qualcosa a vent’anni».
Si struggeva per essere bloccato a letto, senza speranza. «Mi sento in una trappola», chiamava così la malattia, come se fosse l’ultimo protagonista della sua storia finale, quella di cui non ha potuto essere il deus ex machina. Per quando sarebbe arrivato il momento aveva preparato sul tavolo l’ Internazionale da far suonare al funerale: «Un grande sogno di liberazione, purtroppo fallito». Con un’aggiunta: «Era stato composto come inno delle Alpi, che sono la cornice della mia pianura». È qui la tua patria? «Mah, la nostra patria è in verità la lingua». Per l’addio ha chiesto che venga letta anche la preghiera del Padre nostro.
Una volta, arrivati i giornali e ascoltato qualche titolo di fatti di cronaca pieni di quell’odio che Vassalli ha raccontato come pochi altri, ha voluto spiegare: «L’odio spesso è ciò che muove l’universo e che sopravvive a tutto». I ricordi lo commuovevano sempre mentre passato e presente si confondevano in una confessione: «Sono cresciuto facendo esperienza di odio, abbandonato dai miei, ma alla fine ho fatto esperienza d’amore, d’essere amato, anche in questo letto». Il male che lo divorava sembrava non vincere la profondità del suo pensiero, che ha avuto momenti di mistica laicità: «Qual è la mia responsabilità per l’umanità che soffre? Che cosa ho fatto per avere questo male?». Ha anche lasciato scritto: «L’umanità è un mare dove i movimenti avvengono in superficie. Più si scende in profondità, più tutto sembra (ma non è) immobile». In alcuni giorni nella sua stanza d’ospedale sembrava cercasse di vedere ancora più lontano dei suoi libri storici: «Sai di che cosa ha bisogno il mondo? Pace, questa piccola grande parola. Ma la pace, come il sonno, si nomina soltanto quando è lontana». Che cosa vorresti? «Vedere il mio giardino alla Marangana», che da sempre ha curato come il Candido di Voltaire, «nella mia casa amata che vorrei diventasse centro studi». Spesso in quei giorni Vassalli si rammaricava di non vedere dalle finestre dell’ospedale il suo paesaggio di risaie in una pianura che ha narrato come un personaggio: «Un crocevia rumoroso di vite, di storie, di destini, di sogni… un’illusione». L’altra notte ha abbandonato il rumore per attraversare il nulla lasciandoci, non si stancava di dirlo, fino all’ultimo respiro, «un nulla pieno di storie».