il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2015
Se russi e americani (non) si mettono d’accordo per tradurre Tolstoj, Dostoevskij, Cecov e altri cento scrittori. La Russian Library è «quanto di meglio si poteva fare date le attuali circostanze». Parola del discendente di Lev
Se vi trovate a tavola con un russo può darsi che non concordiate sul giudizio nei confronti di Putin, sulla estraneità del Cremlino nella guerra in Ucraina e sul complotto americano che ha incendiato Kiev, nonché sul rimpianto per i tempi in cui l’ex agente del Kgb regalava il lettone a Berlusconi che lo collaudava con la D’Addario (tra l’altro l’escort proviene da Bari, città legata alla Russia per via di San Nicola). Entrambi sarete però felici di ammettere che Cechov è un grande. Grandissimo. Per il quieto vivere fino al dessert e la salvezza della digestione meglio parlare di Zio Vanja che dello Zio Sam, incarnato oggi da Obama. Deve essere a partire da una constatazione di questo tipo che russi e americani hanno varato Russian Library, programma decennale di cooperazione per tradurre in inglese cento o più opere letterarie russe. I titoli ancora non si conoscono. In parte saranno classici come War and Peace, The Death of Ivan Ilych, Crime and Punishment, Dead Souls, The Idiot, The Cherry Orchard, The Master and Margarita.
Nondimeno anche i classici hanno bisogno di una rinfrescata per farli uscire dalla prestigiosa ma polverosa nicchia in cui si trovano. Anche perché la lingua di un classico invecchia meglio di quella del traduttore. Il programma è stato presentato in una conferenza organizzata a Mosca da Read Russia, associazione con finanziamenti governativi per la diffusione della letteratura russa. Da parte americana erano presenti gli slavisti di diversi atenei, compresa la Columbia University e relativa casa editrice che si dovrebbe occupare della pubblicazione. Vladimir Tolstoj, discendente di Lev e consulente culturale di Putin, ha definito il programma “quanto di meglio si poteva fare date le attuali circostanze”.
Se i popoli si conoscessero meglio, diceva Flaiano, ribaltando il luogo comune buonista, si odierebbero di più. Per la conoscenza culturale il detto del satiro solitario forse non vale. I russi senza Tolstoj e Dostoevskij sarebbero come brasiliani senza Pelé, italiani senza Leonardo e Caravaggio, americani senza Quentin Tarantino e Orson Welles… Ma basta un gesto artistico per favorire il ripristino di rapporti amichevoli? O ha solo l’intento di dire: nonostante tutto noi amiamo la Russia? In fondo gli scrittori russi sono stati contro il potere quando c’era lo zar, e poi a maggior ragione quando è stato sostituito dal Pelato, come viene chiamato Lenin, e quest’ultimo dal Baffone, secondo un’escalation tricologica del terrore.
Almeno dall’abbattimento dell’aereo della Malaysia Airlines, è diventato difficile parlare con un russo. Non si tratta di stare da una parte o dall’altra quanto di essere disposti ad accettare argomenti che non rientrano nella normale sfera polemica. Di recente ho cenato con una russa che vive a Milano da tempo e si è laureata in regia a San Pietroburgo. Dunque persona molto evoluta.
Ci siamo commossi parlando della bellezza delle pagine scritte da Babel’ e per la sua fine tremenda. Finché è arrivato il momento fatidico. Prima o poi arriva sempre. Io ho cercato di lasciar cadere. La russa ha tagliato corto sparando un notevole missile tavola-aria. Ha detto che gli storici del futuro scriveranno della guerra in Ucraina come di una nuova guerra civile spagnola. Con russi e filo-russi nei panni dei repubblicani; ucraini, europei e americani in quelli dei franchisti. In un’altra cena, al St. Anne’s College di Oxford, una simpaticissima russa, dopo avermi chiesto cosa pensavo di Putin, ha detto che il brainwashing cui sono sottoposti gli inglesi non è diverso da quello a cui sono sottoposti i russi. Ma i russi sanno di essere sottoposti al lavaggio del cervello, gli inglesi no. Nel mondo universitario, lamentava, le sanzioni hanno creato problemi ai russi. Nonostante questo, i prati dei college inglesi pullulano di aspiranti studenti russi e delle loro famiglie. Non resta che rifugiarci nella cultura?
Ci sono – relativamente al progetto americano – questioni spinose e irrisolte, benché squisitamente letterarie. Classici a parte, chi rientrerà nella centuria, per usare un termine manganelliano? Vasilij Grossman, Varlam Šalamov, Venedikt Erofeev, Sergej Dovlatov… Più ci allontaniamo dall’800 e più il giudizio diventa controverso. Mi è capitato di discutere con un giornalista russo a Cuba. Ci trovavamo a Gavana (così i russi, che non possiedono l’acca, chiamano l’Havana). Esprimendo la mia ammirazione per Iosif Brodskij, mi sono sentito rispondere che Brodskij, in quanto ebreo, non è propriamente russo. Quando il discorso è caduto sulla Crimea, il giornalista mi ha chiesto di allontanarci dal gruppo di colleghi ucraini, con i quali c’era stato qualche screzio.
In un divertente manualetto intitolato Dermo (Merda), Edward Topol racconta di un ciclo di traduzioni in russo di testi religiosi che doveva fare per un’associazione di ebrei americani. Quando è andato a incontrare il suo referente si è trovato di fronte a un rabbino. Lo ha formalmente salutato e questo ha iniziato a dire una sfilza di improperi tremendi in russo: scopa tua madre eccetera. Dove li aveva imparati? Mentre recitava un lamento funebre sulla fossa di Babi Yar a Kiev, dove sono stati uccisi migliaia di ebrei, lo hanno arrestato. C’era ancora il comunismo. Per giorni ha subito maltrattamenti e insulti. Così ha imparato la lingua reale russa, molto diversa da quella dei classici. L’Unione sovietica non c’è più e si può recitare il Kaddish a Babi Yar. Per il tempo in cui uscirà il primo titolo della serie Russian Library – non prima del 2017 – i rapporti con Mosca si saranno distesi?