la Repubblica, 7 luglio 2015
Il calcio vincente è anche uno sport per signorine. Almeno negli Usa. Così Carli, Abby, Hope e le altre hanno conquistato il mondo. Hanno vinto contro il Giappone, hanno vinto perché hanno riempito uno stadio da 53mila posti, perché nelle piazze delle metropoli americane hanno portato davanti ai grandi schermi decine e decine di migliaia di fans, perché la Fox Network ha trasmesso il match in diretta (e sulla East Coast era prime time, l’orario dove la pubblicità vale milioni). E ora Obama le vuole alla Casa Bianca. Storia di una rivincita
Si è commossa Carli quando le hanno chiesto di Rudi. Quell’uomo per lei era stato un secondo padre, il suo papà sportivo. Era stato Rudi Klobach, l’ebreo nato nel lager nazista di Terezin e arrivato in America bimbetto di quattro anni, a dirle in quell’ormai lontano 1999 (guardavano insieme le donne del soccer Usa volare verso il secondo titolo mondiale) «quella coppa un giorno sarà tua». Lei, la “ragazza della porta accanto” del New Jersey, gli aveva aveva dato le chiavi della sua carriera, già allora stella (sia pure un po’ acerba) del calcio da High School. Dal viso ancora sudato le sono scese un paio di lacrime, perché Rudi se ne è andato in silenzio qualche mese fa, stroncato dal morbo di Gehrig senza che lo sapesse nessuno, neanche lei, la figlia “calcistica” prediletta. Morto troppo presto, senza vedere l’hat trick, la tripletta con cui Carli in un quarto d’ora ha domato il Giappone (5-2 alla fine), senza gustarsi quel gol-capolavoro da centrocampo, senza ammirarla mentre alzava la Golden Ball, il premio per la migliore giocatrice del mondiale.
Si è commossa, ma prima, in campo, aveva scaricato tutta la sua rabbia. Perché Carli Anne Lloyd, 33 anni il prossimo 16 luglio, voleva questo titolo mondiale più di ogni altra. Lo aveva giurato quattro anni fa, Pearl Harbor calcistica delle ragazze a stelle e strisce, quando (finalissima a Francoforte) le loro coetanee giapponesi – dominate in lungo e in largo – avevano incredibilmente rimontato due volte per poi vincere, come nei migliori thriller, alla “lotteria dei rigori”.
Lo desiderava a tutti i costi, perché pur essendo una delle più brave e vincenti di sempre (due medaglie d’oro alle Olimpiadi di Pechino e Londra grazie ai suoi gol decisivi) non era mai stata la più amata dai tifosi, né una ragazza-copertina e alla vigilia di questo mondiale (il terzo per lei) aveva dovuto ingoiare le critiche di Pia Sundhage (il coach svedese che aveva guidato gli Usa alle vittorie olimpiche e alla sconfitta del 2011) che l’aveva liquidata come incostante.
«Great Game @CarlyLloyd», ha twittato Barack Obama un minuto dopo il fischio finale, invitando le ragazze del soccer «a visitare la Casa Bianca con la Coppa al più presto». È stato un trionfo fin troppo annunciato, una festa patriottica all’indomani di Independence Day. Il giusto premio perché le donne del “Team Usa” sono da anni le più brave, perché hanno dietro di loro milioni di praticanti e di tesserate, perché a Vancouver (presente il vice-presidente Joe Biden) hanno riempito uno stadio da 53mila posti, perché nelle piazze delle metropoli Usa hanno portato davanti ai grandi schermi decine e decine di migliaia di fans, perché la Fox Network ha trasmesso in diretta e sulla East Coast era prime time, l’orario dove la pubblicità vale milioni. E perché negli States il calcio vincente è uno sport “per signorine”.
Ha vinto Carli e hanno vinto tutte le altre, e che sarebbe finita così lo si era capito fin dagli inni nazionali, mentre cantavano a squarciagola “The Star-Spangled Banner”. Ha vinto Abby Wembach, la capitana di lungo corso che domenica sera ha ceduto la fascia a Carli, si è seduta senza proteste in panchina per poi giocare l’ultima dozzina di minuti. Finita la partita è corsa verso le tribune per baciare in diretta tv la moglie Sarah Huffman e gli applausi sono stati tutti per lei. Hanno vinto Christie Rampone (40 anni compiuti pochi giorni fa) e Megan Rapinoe, altra gay dichiarata (come lo è la coach Jill Ellis). Ha vinto Hope Solo, la più brava “portiere del mondo”, lei sì ragazza- copertina (a volte suo malgrado) per la bellezza e per le sue avventure extra-calcistiche. Un padre italo-americano cresciuto tra le gang del Bronx, veterano del Vietnam e galeotto (è stata concepita in carcere), una vita difficile e un senatore (democratico) che alla vigilia del Mundial voleva fosse cacciata dalla nazionale per una brutta storia di maltrattamenti alla sorella e alla nipote. Hanno vinto e si sono vendicate.