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 2015  luglio 07 Martedì calendario

Modi 2.0. Ossessionato da Twitter e Facebook vuole digitalizzare tutto il Subcontinente. Bultrini: «Ma un uomo solo al comando della rete non crea direttamente posti di lavoro, giustizia giusta, un ambiente sicuro per le donne e la salvaguardia dell’ambiente, ma l’obiettivo del premier è quello di far credere nel marchio Modi anche gli investitori»

Gli uffici del grande partito religioso Bharatiya Janata Party (Bjp) si trovano in una delle strade più prestigiose di Delhi. Ma tranne le stanze degli alti dirigenti, si tratta in gran parte di celle spartane e anguste. Non più spaziosi erano gli uffici in cui operava la ormai leggendaria “IT Cell”, la task- force di 200 geni della tecnologia informatica che contribuì notevolmente a far parlare “in diretta” l’attuale premier Narendra Modi a decine di milioni di user dei social network durante la campagna elettorale del 2014. Freschi di studi nei college indiani, europei e americani venivano nella sala stampa governativa di Ashok road a prendere direttive e se ne tornavano a casa coi loro Pc da molti giga imbottiti di app per moltiplicare il messaggio del loro committente. Che con affetto e rispetto i suoi boys chiamano “NaMo”.
Se oggi, poco più di un anno da quando è diventato il primo ministro dell’India, Modi rincorre Barack Obama con 29 milioni di amici Facebook, molto si deve a quella prima “cellula” messa in piedi dal suo braccio destro tecnologico, Arvind Gupta, scopritore di talenti preso a prestito cinque anni fa da Silicon Valley e dal suo corrispettivo indiano di Bangalore. Gupta capì subito che per rottamare i santoni del vecchio Bjp attaccati alla stilografica e ai comizi di piazza occorreva una terapia d’urto per la discesa in campo di un uomo che sceglieva i suoi “NaMo boys” chiedendo loro a bruciapelo: «Sei in grado di raddoppiare il numero dei Like sul mio sito Facebook?».
Ancora oggi appena sveglio, prima addirittura di meditare e praticare yoga, Modi apre l’Ipad per leggere i messaggi, sbircia en passant la finestrella col numero dei follower conquistati dalla sera prima, nonché la cifra dei suoi tweet ritwittati dai sostenitori, almeno 13 milioni. Infine spulcia la selezione di news preparata per lui dai “NaMo boys” che nel frattempo sono diventati migliaia e spargono via hashtag commenti positivi sul premier decisionista e moderno che ha spinto ai margini non solo i nemici del Congresso, ma anche la vecchia guardia del suo partito.
Certo, un uomo solo al comando della rete non crea direttamente posti di lavoro, giustizia giusta, un ambiente sicuro per le donne e la salvaguardia dell’ambiente, ma l’obiettivo del premier è quello di far credere nel marchio Modi anche gli investitori, molti dei quali ancora reticenti a puntare su un Paese condizionato da caste, superstizioni, assenza di servizi funzionanti. Proprio ieri Moody’s ha emesso un verdetto non entusiasmante a un anno dall’insediamento: «circola un po’ di delusione» – dice il rapporto – per il ritmo «troppo lento delle riforme», mentre aumentano «le preoccupazioni per il rischio di stagnazione».
Per scongiurare tali rischi, Modi non si accontenta di viaggiare virtualmente – come fece in campagna elettorale con il suo oleogramma riprodotto via satellite – ma visita uno dopo l’altro i Paesi che potrebbero investire nel suo modello “Make in India” (“produci in India”): dal Giappone a New York, dal piccolo regno montano del Bhutan al prossimo viaggio in Asia centrale, il premier percorre imperterrito miglia su miglia, registrate, anche queste, da tutti i social media.
Due autorevoli newsmagazine come l’ Economist e Time hanno dedicato a Modi quasi contemporaneamente copertine con primi piani e lunghi servizi su luci e ombre del suo anno al potere, ricchi di consigli che Modi ha recepito a modo suo. Dopo che, ad esempio, l’ Economist ha rilevato l’assenza di programmi di sensibilizzazione per proteggere le nate femmine da aborti e uccisioni, il leader ha invitato alla radio i genitori a farsi selfie con le loro bambine e postarli sui social. La valanga di adesioni entusiaste ha costretto anche i media tradizionali a parlarne, mentre i soliti cavillosi hanno notato la contemporanea gaffe di Modi durante uno dei suoi tour di buon vicinato: cercando di fare un complimento alla premier del Bangladesh Sheikh Hasina, l’ha lodata per la sua lotta al terrorismo «nonostante sia una donna». È un fatto che i critici del suo stile macho – blogger, editorialisti o anchormen della tv – non possono competere con un politico che si profila ogni giorno di più come un guru della comunicazione, capace di creare eventi-notizia memorabili come la Giornata mondiale dello Yoga, messa in calendario dalle Nazioni Unite, lodata da Obama e perfino dai vicini- nemici cinesi. Il successo dell’iniziativa ha messo in secondo piano campagne ostili come quella del Partito del Congresso sul caso di quattro donne ministro e capo ministro sospettate rispettivamente di aver appoggiato un potente uomo d’affari semi-latitante, falsificato i dati della laurea per assumere il Dicastero dell’Educazione, intascato i soldi di una grande donazione per dare carne di pollo ai poveri.
In ombra restano anche provvedimenti impopolari come la “Legge di acquisizione delle terre”, che elimina le garanzie offerte alle comunità locali e tribali contro espropriazioni e deportazioni, a favore di corporazioni di industriali e finanzieri indiani titolari di concessioni sui giacimenti di gas, carbone, metalli, oltre che di giornali e tv. È anche la predominanza di queste corporazioni a preoccupare i potenziali investitori stranieri verso un vasto mercato in crescita del 7,5% ma condizionato da un regime corruttibile di semi-monopolio: tanto che l’India arranca al 149esimo posto tra i Paesi in cui «non» è facile fare business. Anche la filosofia del “Make In India”, come sostiene Prashant Bhushan, avvocato ed ex politico, «è basata su una prospettiva insostenibile di consumo d’energia e risorse minerali accompagnate da seri problemi ambientali e sociali come la legge per acquisire le terre».
Non è una voce isolata, ma resterà ancora di più in sordina ora che le grandi compagnie produttrici si apprestano a entrare con Modi nell’èra della digitalizzazione dell’India. Voluta e inaugurata appena due giorni fa dal premier con un discorso in diretta reso obbligatorio per milioni di indiani, la Digital India Initiative ha l’obiettivo di cablare e connettere le varie sale comando del governo e delle imprese con i cittadini dei 36 Stati e 600 mila villaggi dell’India, quantomeno con un computer per ognuno dei 250mila panchayat (consigli dei villaggi) del Paese. Si parte da una spesa di 18 miliardi di dollari investiti in gran parte dalle aziende nazionali, mentre Google, Facebook e altri giganti Usa, decisi e entrare, indugiano scettici sulla soglia.
La “Digital India”, nata come operazione trasparenza pubblica dell’amministrazione, potrebbe in senso inverso diventare uno strumento di ulteriore controllo del miliardo di cittadini che avrà accesso alla banca dati nazionale attraverso web di uffici, istituzioni scolastiche, ospedali, centri di ricerca. Il timore è una forma di dittatura virtuale temuta per i suoi potenziali effetti sociali e politici anche dai vecchi con la stilografica di Ashok road, tra i quali l’ancora riverito ex presidente del Bjp, L.K. Advani. Ricordando il 40esimo anniversario delle leggi liberticide imposte da un’altra leader forte, Indira Gandhi, ha detto che un nuovo “stato d’emergenza” è possibile anche oggi. Ma la sua battuta non è stata ritwittata dai “NaMo boys”.