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 2015  luglio 07 Martedì calendario

Il Tempio della Pace e le sette colonne della discordia. A Roma scoppiano le polemiche per l’uso eccessivo di cemento armato nel il restauro del portico voluto da Vespasiano. Il rischio è l’effetto Disneyland

Sono cadute con il crollo dell’impero romano. E ora in sette si stanno tirando su, pronte a resistere persino al terremoto. Ma il loro innalzamento è messo a rischio dalla bordata di critiche per l’uso invasivo del cemento armato nel progetto di anastilosi deciso, nel Foro della Pace, dal patto di ferro tra Campidoglio e Stato. Tanto che un’interrogazione al ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, prima firmataria la senatrice Manuela Serra (M5S), depositata oggi, chiede la sospensione dei lavori. Altrimenti, ricorreranno alla procura “per danneggiamento del patrimonio storico-archeologico”.Il casus belli sono 7 colonne dell’edificio eretto il 75 d.C. da Vespasiano. Torneranno in piedi sotto i tendoni del cantiere della Blasi srl su via dei Fori imperiali. E il 21 aprile, Natale di Roma, due “monoliti” sono stati già mostrati «in fase di premontaggio», precisa l’autore del progetto, l’ingegner Mario Bellini. Poi la sospensione dei lavori, per il palco del 2 giugno, che dovrebbero essere ultimati «entro la fine dell’estate».Avverso all’erigenda macchina è però, tra gli altri, il pool di studiosi dell’associazione Bianchi Bandinelli che, spinta dall’architetto Sandro Maccallini, promotore della campagna contro questa ricostruzione («il pericolo – dichiara – è che questo tipo di anastilosi, di falso, diventi un modello su tutto il territorio nazionale»), ha visitato il cantiere delle polemiche. E, dopo il sopralluogo, spara contro le colonne a palle incatenate. «Per costruire le nuove basi in cemento hanno distrutto quelle antiche», attacca l’ingegner Salvatore d’Agostino, strutturista della Federico II di Napoli: «Stanno praticando un foro nei blocchi di granito per sostenere le strutture con pali di acciaio. Ma così si violano i principi di integrità e di autenticità: il colonnato diventa un fenomeno da baraccone». E l’ex soprintendente di Salerno, l’archeologa Giuliana Tocco, gli è accanto: «Sembra di essere tornati agli anni Sessanta, l’apoteosi del cemento che poi abbiamo capito quanti danni abbia invece prodotto. E poi si nega il principio di reversibilità, fondamentale in ogni restauro». Stesso tono di Pietro Guzzo, per anni a capo della soprintendenza di Pompei: «Le basi in cemento armato che devono sostenere le colonne ricostruite? Impossibile rimuoverle. Né mi riconosco in questa smania per la cosiddetta valorizzazione: davanti a tanti resti che hanno bisogno di cure, spendiamo fondi in operazioni di pura immagine».Il ri-innalzamento delle 7 colonne della discordia viene difeso invece a spada tratta da Francesco Prosperetti, soprintendente all’archeologica di Roma. «Le basi in cemento e i perni in acciaio sono necessari perché rispondono alle nuove leggi in materia di sicurezza antisismica, altrimenti l’anastilosi non si può fare», rimarca l’architetto.Ma lo studioso che ha messo per primo il sigillo sul progetto è il responsabile dei Beni culturali comunali, Claudio Parisi Presicce. «Le polemiche sono sollevate da una parte della comunità scientifica che vuole lasciare l’antichità allo stato di rovina, di rudere» taglia corto l’archeologo. Che poi entra nel merito: «È vero che è stato praticato un foro centrale del diametro di 8 centimetri, ma le statue antiche non si perforano forse allo stesso modo per inserire i perni che le sostengano?». Né importa se pochi sono i pezzi originali superstiti: «Per l’anastilosi è sufficiente che siano i due quinti».E il cemento che viene impiegato nelle colonne non viola il principio della reversibilità? «Per le integrazioni – spiega stavolta l’ingegner Bellini – usiamo una malta di riscostruzione, una pietra artificale che si intonerà con i colori originari del granito, del marmo lunense e del travertino. Uno strato di calce fa sì che essi non entrino in contatto con il cemento: la reversibilità è assicurata».Infine, alla domanda perché mai spendere 665.900 euro quando i resti delle colonne potevano restare a terra e la ricostruzione affidarla alla tecnologia virtuale e luminosa di un Piero Angela, Parisi Presicce dichiara sorprendentemente: «La condizione migliore per conservare quei blocchi di granito è riportarli nella posizione originaria, che è verticale. Ricevono più danni a restare sdraiati a terra». Dopo le prime sette, una selva di colonne potrebbe riconquistare la posizione eretta nel cuore di Roma.
Carlo Alberto Bucci
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Non occorre il dottor Freud per capire che l’erezione delle colonne del Tempio della Pace è il risultato di un’archeologia alla disperata ricerca di una pillola blu che le conceda una nuova giovinezza, naturalmente ad alta visibilità mediatica.
Ma di sintomi analoghi se ne possono indicare molti altri: dall’anastilosi del Tempio G di Selinunte (proposta nel 2011 da Valerio Massimo Manfredi e poi felicemente abbandonata) alla drammatica cementificazione del Teatro Grande di Pompei per opera dell’allora commissario Marcello Fiori (un’impresa oggi al centro di processi penali e contabili), fino all’annunciata ricreazione dell’arena del Colosseo, una sorta di “ponte sullo stretto” dell’archeologia che ha trovato nel ministro Franceschini un sostenitore deciso a destinarle sedici milioni di euro pubblici, in un tempo in cui chiudono per inedia archivi e biblioteche dello Stato.
Il Piano degli interventi pompeiani del commissario Fiori (oggi coordinatore nazionale dei club Forza Silvio) si faceva forte di numerose citazioni di uno dei decani dell’archeologia italiana, Andrea Carandini, accesamente favorevole al «fare della valorizzazione finalmente una nostra priorità, per dare uno scopo al nostro agire per la tutela».
Su un’analoga inversione della scala dei valori (cioè su una tutela posposta ad una valorizzazione- spettacolarizzazione- mercificazione) si fonda l’arbitrario e irreversibile intervento che oggi colpisce un monumento come il Tempio della Pace, dove il sindaco Marino ha annunciato di voler ripiantare le rose dei tempi di Vespasiano: un ultimo tocco di kitsch ad una Roma-Disneyland che – col pretesto di voler intrattenere il pubblico pagante – viene ridotta a giocattolo di lusso per un’intera classe di professori e amministratori in fuga dalla realtà.
Tommaso Montanari