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 2015  luglio 07 Martedì calendario

I pagherò greci. Si chiamano Iou ed è l’acronimo di «I owe you», ovvero «Ho un debito con te». Potrebbero essere la valuta parallela di Atene per evitare l’estromissione della moneta unica, come ipotizzava l’ex ministro Varoufakis, ma al tempo stesso rappresentare l’anticamera della Grexit come credono gli economisti: «Funzionano solo per brevi periodi»

I Owe You significa “ti pagherò”. Potrebbe essere l’ultimo disperato tentativo di Atene per evitare l’estromissione della moneta unica ma al tempo stesso rappresentare l’anticamera della Grexit. L’acronimo (peraltro improprio però è quello utilizzato), è Iou, un’altra sigla con cui dovremo prendere familiarità, come Ela o Efsf (fondo salvastati). Gli Iou sono una sorta di cambiale da usare come valuta parallela: ieri è stato Yanis Varoufakis, nello stesso comunicato in cui annunciava le sue dimissioni, a prospettarne l’introduzione se la Bce non allargherà gli emergency liquidity agreement (appunto gli Ela). Ipotesi tutta da verificare: è l’unico modo per approvvigionarsi di valuta “vera”, dopodiché gli euro finiscono ed entrano in funzione gli Iou. Ma è una soluzione «troppo rischiosa», spiega l’economista Rainer Masera, già ministro del Bilancio. «Una moneta ha bisogno di una banca centrale, di un livello controllato, di una programmazione, tutte cose inesistenti». Il modo per introdurli nel sistema economico sarebbe quello di usarli per pagare le pensioni e gli stipendi pubblici, scrive la Barclays in un report emesso la notte del referendum. «A quel punto gli intestatari li userebbero per saldare le loro, di obbligazioni verso lo Stato: tasse, multe, diritti».
Nascerebbe così un mercato secondario dagli esiti però quanto mai oscuri, destinato al solo uso interno. «Un sogno autarchico che non fa i conti con i trattati istitutivi dell’euro dove si legge chiaramente che quando si dà valore legale a questi titoli, per esempio per pagare le tasse, si violano le regole», taglia corto Lorenzo Bini Smaghi, che ha vissuto dal board della Bce lo scoppio della crisi greca. In effetti, a differenza delle cambiali che conosciamo gli Iou non recano né la valuta né la data di scadenza. Come fare per monetizzarli è un mistero, altrettanto usarli all’estero, e meno che mai – come pure si è sentito dire in questi giorni ad Atene – consegnarli alla Bce come “collaterale” in cambio di liquidità.
L’Eurotower per premunirsi nei giorni scorsi ha usato la formula per essa inusuale delle “informazioni dagli ambienti” per rendere noto che un esperimento del genere «sarebbe destinato al fallimento e porterebbe in tempi rapidi alla fuoriuscita dall’euro». Peggio del ritorno diretto alla dracma: non porterebbe altro che ad un prolungamento dell’agonia finanziaria greca e a un’ulteriore dissipazione di risorse. È solo più rapido perché tornare alla valuta antica comporta un immane lavorìo di riconversione. «Intendiamoci, se il regime provvisorio degli Iou dura una settimana, dopodiché si fa l’accordo e si ripristina una situazione normale con Atene nell’euro, se ne può parlare», riflette Brunello Rosa, il capo economista del Roubini Global Economy proveniente dalla Bank of England. «Ma c’è il pericolo che duri molto di più vista la gravità della situazione e la difficoltà delle trattative.
Nel complesso è un’opzione difficilmente presentabile. Potrebbe però diventare inevitabile se il 20 luglio, nel protrarsi del negoziato, Atene non salderà la rata con la stessa Bce». La banca europea per regole statutarie non può ammettere un default su obbligazioni ad essa dovute. «Anche le cosiddette cambiali finanziarie vengono scambiate in Italia come negli altri Paesi industrializzati», osserva Domenico Gaudiello, dello studio legale Dla Piper specializzato in finanza pubblica. «Ma un conto è che le emetta un privato come forma alternativa,un altro che le emetta uno Stato. Sarebbe una forma per onorare un pagamento sapendo che nessuno in realtà pagherà mai».
Gli Iou hanno diversi precedenti tutti poco illustri. Senza voler ricordare i “miniassegni” che hanno circolato in Italia negli anni ’70, con i quali certo non ci sognavamo di pagare le tasse, un caso evocato da Varoufakis è la California del 2009: lo Stato fallì e per qualche mese le amministrazioni pubbliche pagarono con Buoni del Tesoro californiano con una scadenza stampata, in dollari, che vennero scambiati per transazioni fra privati ma alla fine furono onorati. Durante la Grande Crisi degli anni ‘30 alcuni Stati Usa (Illinois, Arizona, Virginia) uscirono dal sistema del dollaro, per essere poi riassorbiti vista la forza della moneta certo superiore all’euro. Negli anni ’90 quando la Repubblica Ceca e la Slovacchia si divisero provarono ad adottare una moneta comune, ma l’esperimento durò sei mesi e poi la Slovacchia entrò nell’euro. Nel gennaio 2002 nell’Argentina travolta da un default epocale fu stabilito un doppio regime di cambio: uno di 1,4 pesos per dollaro per il settore pubblico e le transazioni commerciali internazionali, un altro lasciato al libero mercato per gli altri usi. Vennero stabiliti controlli monetari ferrei come il famigerato corralon, il congelamento dei depositi bancari. Il tutto franò miseramente, fu rivisto fra moti di piazza e crollo dell’economia e quando il Paese si rianimò il cambio ufficiale era crollato a 4 pesos per dollaro. Anche in Italia ci furono esperimenti infausti di valuta parallela oltre ai miniassegni: uno dei più clamorosi fu una “catena di S. Antonio”architettata da Giovanni Giuffrè nel 1958 che causò danni spaventosi a un’infinità di persone e quasi costò il posto per mancati controlli al governatore della Banca d’Italia, Domenico Menichella, l’uomo che aveva fatto raggiungere alla lira la parità secondo gli standard del Fondo Monetario facendo vincere alla nostra moneta l’Oscar della stabilità del Financial Times. Altro che Varoufakis.