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 2015  luglio 07 Martedì calendario

Varoufakis, i diciotto caratteri per calare il sipario su una brevissima carriera politica di 162 giorni, ma destinata a lasciare un segno nella storia della Grecia e una serie di strascichi neurologici per molti colleghi dell’Eurogruppo

«Un accordo senza taglio del debito? Piuttosto mi taglio il braccio», aveva detto Yanis Varoufakis. Ieri è stato costretto ad alzare la posta. E pur di regalare ad Atene un’intesa che salvi il paese dal default, il vulcanico ministro delle finanze ellenico ha messo sul tavolo dell’Eurogruppo la propria testa. Il trofeo che Alexis Tsipras ha consegnato a Berlino per provare a dare alla tragedia greca un imprevedibile lieto fine. L’addio, nello stile dell’uomo, è stato pirotecnico. Fino a ieri sera Varoufakis pareva saldo in sella. Ha affrontato la stampa in maglietta grigia sparando a palle incatenate contro i ricattatori della Troika (un classico). Alle tre di notte – dopo la festa per la vittoria del “No” – ha lanciato ai suoi 547mila adoranti follower il tweet della buonanotte: «Il nostro “No” è un gigantesco “Sì” a un’Europa democratica e razionale». Poi, alle 7.40 di mattina, ha cinguettato la bomba: «Minister No More!». Diciotto caratteri per calare il sipario su una carriera politica brevissima, 162 giorni, ma destinata a lasciare un segno nella storia della Grecia e (probabilmente) una serie di strascichi neurologici per molti colleghi dell’Eurogruppo.
Cosa è successo nelle quattro ore tra i due tweet rimarrà un mistero. Il tam tam sotto il Partenone dice che l’addio non è stato indolore. «Sto al fianco del premier», ha precisato lui con stile. Le dimissioni sarebbero però arrivate dopo un confronto franco con Tsipras, che le avrebbe pretese non solo a fini strategici – «la mia assenza rende più semplice un accordo», ha scritto l’ex ministro – ma anche per allineare un team negoziale che negli ultimi giorni aveva iniziato a scricchiolare.
La certezza è che l’addio lascerà un buco nero mediatico sul palcoscenico della crisi, dove da gennaio Varoufakis è indiscusso primattore. Nessuno ad Atene ha dimenticato il debutto. Data: 30 gennaio, quando sotto il Partenone è planato l’arcigno Jeroen Dijsselbloem per prendere le misure ai nuovi interlocutori di Syriza. Sorrisi, strette di mano, flash. Poi, al momento della conferenza stampa, Varoufakis – camicia turchese fuori dai pantaloni – ha calato il biglietto da visita: «Ringrazio il presidente, ma ad Atene non vogliamo più vedere la Troika, istituzione marcia alle radici». L’olandese si è alzato, ha schivato la mano tesa del collega e – scurissimo in volto – è ripartito per Bruxelles.
È stato solo l’antipasto. «Temo di diventare un politico, venendo meno all’obbligo di dire la verità sul potere», aveva confidato presentando la sua candidatura lo scorso dicembre. Non si può dire che non sia rimasto se stesso. Ha dato dei «terroristi» ai tecnici della Bce. Ha incassato come un punching- ball le accuse dell’Eurogruppo – «sei un perditempo e un giocatore d’azzardo» – con dotte citazioni di Frank Delano Roosevelt ( «Mi odiano tutti e sono felice del loro odio»). Ha fatto saltare le liturgie degli incontri tra tecnocrati registrandoli e minacciando di renderli pubblici, ha posato (pentendosi) con signora per un servizio glamour su Paris Match, ha costretto alla ritirata gli anarchici che l’hanno aggredito ad Exarchia, ha combattuto come un leone quando dal pozzo nero del web è emerso un video in cui mostrava un inequivocabile dito medio alla Germania, ha costretto l’arcinemico Wolfgang Schaeuble ad ascoltare una lezione sul rapporto tra gli Eagles e la Ue («L’Europa è come l’Hotel California: fai check-out ma non esci mai»). Ha accusato i media di essere «tossici», l’Italia di «essere in bancarotta». Un approccio muscolare, figlio della diletta teoria dei giochi, utile per internazionalizzare sui media la crisi umanitaria greca ma controproducente, forse, ora che è il momento di cucire. «Non voglio essere avvelenato dal virus della politica – aveva ammesso a gennaio – ho scritto una lettera di dimissioni che porto sempre con me». Ieri l’ha consegnata. È balzato in sella alla Yamaha, è entrato a piedi e senza scorta – come sempre – al ministero a ritirare le sue cose. È uscito senza dire una parola. Lo aspetta una fitta agenda di lezioni universitarie, libri e convegni. Il paladino anti-austerity è un brand che tira. Lui, narcisista come pochi, monetizzerà da par suo. A Bruxelles sono saltati i tappi di Champagne. Qui sotto il Partenone, cinque minuti dopo l’addio, mancava già a tutti.