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 2015  luglio 07 Martedì calendario

In Iran, la band che suona senza strumenti. Con mimo e playback, i Pallett si sono esibiti in tv per mettere in ridicolo il proibizionismo musicale voluto dai leader religiosi. E ora sono il simbolo della libertà di espressione

La linea dura dei leader religiosi iraniani scoraggerebbe qualsiasi musicista. Accanto ai divieti di ascoltare e diffondere la musica non tradizionale (“è pericolosa e peccaminosa”, dicono soprattutto gli sciiti) e di far esibire cantanti donne soliste, ce ne sono di più radicali, come quello – vigente in Iran da oltre trenta anni – di mostrare gli strumenti in televisione. Esistono casi di resistenza: qualche anno fa, il giovane Agah Bahari rischiò la prigione per aver rivisitato canzoni rock e metal (l’accusa era di diffondere il modello americano); Justina è una rapper che per continuare a vivere e lavorare si dipinge il volto per non farsi riconoscere, per tenere nascosta la propria identità.
Di recente s’è assestato un bel colpo anche al divieto di introdurre in uno studio televisivo chitarre, contrabbassi e affini. Lo ha fatto la Pallett Band, gruppo di giovani musicisti dallo stile eclettico – fanno un folk-jazz-gipsy-balcanico – che suoneranno a Roma questa sera per “I giardini della Filarmonica”, la stagione estiva dell’Accademia Filarmonica Romana. Si sono messi insieme nel 2009 e la loro notorietà è rimasta entro i confini iraniani sino all’anno scorso, quando, ospitati dalla trasmissione della tv di Stato Radio7, si sono esibiti come air-band, dunque in playback, a mani vuote, ma mimando l’uso degli strumenti, per ingannare la censura. Un precedente diverso fu la sfida più diretta di un altro gruppo musicale, gli Avaye Baran, che pochi mesi prima erano andati in onda con gli strumenti in studio, benché per pochi secondi. L’episodio fu archiviato come un “incidente”, risultando così meno efficace della provocazione della Pallett Band che, facendo finta di suonare, ha messo effettivamente in ridicolo il proibizionismo musicale. La conseguenza? Un tam-tam di opinioni favorevoli e contrarie prima su Facebook poi sui giornali internazionali, tanto che il gruppo è diventato quasi alfiere della libertà d’espressione e della lotta al sistema. Il divieto di esibire in televisione uno strumento musicale equivale a proibire la musica anche in modo simbolico, a prescindere dai testi delle canzoni. «Per quanto riguarda le altre attività culturali, dai libri al cibo, non ci sono limitazioni se il contenuto non è offensivo per la religione», sottolinea Rouzbeh Esfandarmaz, clarinettista e fondatore del gruppo.
Esfandarmaz, vietare l’esibizione degli strumenti equivale a censurare la musica. Una delle molte proibizioni cui il vostro paese è costretto a sottostare.
«È un’idea tutta religiosa quella che la musica non sia una cosa buona. Per questo i leader religiosi l’hanno esclusa perfino da un media fruito da 70 milioni di persone. Ma le cose stanno cambiando».
Anche grazie all’esibizione che vi ha reso noti. Ci racconti come è andata.
«Ci invitarono per suonare in televisione, solo che l’invito prevedeva che noi stessimo fermi e che si esibisse solo il cantante. Naturalmente non eravamo d’accordo, siamo una band, nessun componente prevale sull’altro. Abbiamo pensato di suonare senza strumenti, per sottolineare, con una provocazione, l’illogicità di questa regola».
Quali sono state le reazioni?
«Quella del pubblico è stata sorprendente, non pensavamo smuovesse tante opinioni, quasi tutte favorevoli. Chiunque si accorge di quanto sia assurdo fare musica in tv senza mostrare gli strumenti. La cosa strana è che in Iran le reazioni sono state ignorate: nessun politico si è pronunciato, i media locali si sono limitati a segnalare la notizia come un episodio divertente. Ma fuori dai confini si è aperto il dibattito. Va detto che adesso noi musicisti ci sentiamo più liberi. Penso, ad esempio, al numero dei concerti in Iran, triplicato in pochi anni. Ci sforziamo di essere ottimisti, immaginando una strada per cambiare le cose. La situazione qui è meno tragica di quanto facciano passare. Ma è anche vero che nel nostro caso i contatti internazionali aiutano».
Siete attenti a non toccare temi sensibili e cantate in iraniano. Di cosa parlano le vostre canzoni?
«Potremmo cantare in inglese, e forse lo faremo, ma per il momento preferiamo mantenere la nostra unicità. I nostri testi non hanno un unico filo conduttore e cerchiamo sempre di trattare ogni tema, anche quelli sociali, con emotività e ironia. Parliamo di tutto quello che ci circonda. Per esempio, Teheran è il “concept” del nostro nuovo album, Teheran, smile!.
La città in cui viviamo è un posto che si può amare o odiare, la descriviamo come un luogo dove ogni cosa è grigia ma non invitiamo nessuno né ad andar via né a venirci. Semplicemente raccontiamo ciò che vediamo con leggerezza, con una visione sempre ottimistica del futuro».
La vostra è una musica eclettica, difficile da definire.
«Già, che tipo di musica facciamo non lo sappiamo neanche noi. Molti di noi hanno una formazione classica ma con esperienze musicali che vanno dal jazz al rock alla musica popolare. Ogni canzone che scriviamo è il prodotto di un brainstorming collettivo: discutiamo del concetto alla base di ogni pezzo e poi ognuno dà i suoi suggerimenti armonici, melodici e ritmici. Se le idee ci piacciono ci mettiamo a suonarle insieme, come in una jam session. Il risultato è una “pallett song”».