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 2015  luglio 03 Venerdì calendario

Ricordate il disastro ecologico della Deepwater Horizon, la grande piattaforma petrolifera esplosa nel Golfo del Messico? Cinque anni dopo è arrivata una multa record per British Petroleum: pagherà 18,7 miliardi per quella marea nera che dalle coste della Louisiana arrivò fino in Florida. È la cifra più alta stanziata per danni ambientali. La soddisfazione di Obama: «Risarcita la Natura»

Diciotto virgola sette miliardi di dollari. Cinque anni dopo il disastro ecologico della Deepwater Horizon (la grande piattaforma petrolifera esplosa nel Golfo del Messico), con l’imponente marea nera che dalle coste della Louisiana arrivò fino in Florida e la impari battaglia, durata mesi, dell’uomo contro la natura (alla fine vinta dagli umani), la British Petroleum ha raggiunto un accordo con gli Stati Uniti: pagherà la più alta cifra mai stanziata per danni ambientali, per ripagare i danni subiti dai cosiddetti “Gulf States” degli Usa.
Non poteva fare altro, visto che in tribunale si era ritrovata contro cinque Stati (Louisiana, Texas, Alabama, Mississippi, Florida) più un governo federale (era già presidente Obama) che pochi giorni dopo il disastro aveva annunciato al mondo intero che non sarebbero stati fatti sconti a nessuno.
Alla fine il gigante petrolifero britannico non può neanche lamentarsi troppo. Dopo una battaglia legale senza precedenti (che ha arricchito molti studi legali di qua e di là dell’Atlantico) pagare 18,7 miliardi che verranno dilazionati in un periodo tra i 15 e i 18 anni (la decisione finale sarà presa fra un anno) è una somma accettabile per una società come la Bp che nel 2014 ha avuto un fatturato di 6.400 miliardi di dollari e un utile netto di 4mila miliardi.
La storica “multa” sarà suddivisa così: 7,1 miliardi al governo federale e Stati per «danno alle risorse naturali», 5,5 al governo Usa per violazione del Clean Water Act, 4,9 agli “Stati del Golfo” come compenso alla crisi economica provocata dal disastro ambientale, il restante a circa 400 comunità locali.
Era il 20 aprile 2010 quando sulla Deepwater Horizon (affittata dalla BP per 496mila dollari al giorno) una improvvisa esplosione innescò un violentissimo incendio – con undici morti e decine di feriti – mentre la sua gigantesca trivella (era in grado di esplorare fino a 5mila metri di profondità) si trovava sul cosiddetto Pozzo Macondo, centinaia di metri sott’acqua. Due giorni dopo la Deepwater Horizon si rovesciò con una fuoriuscita di petrolio senza controllo.
Occorsero 87 giorni per mettere un primo “tappo”, 107 giorni per bloccare lo sversamento e solo il 19 settembre l’operazione venne dichiarata conclusa. Nel frattempo oltre cinque milioni di barili di oro nero (quasi un miliardo di litri) avevano invaso il mare da New Orleans fino alla Florida provocando un disastro ambientale dieci volte superiore a quello della Exxon Valdez (1989).
L’accordo raggiunto è stato accolto con favore dalla Casa Bianca («anche se non abbiamo ancora i dettagli, si tratta di un accordo storico che aiuterà a riparare i danni alla natura, agli animali e alla pesca delle zone colpite aiutando la ripresa delle economie locali», ha detto il portavoce di Obama ai giornalisti in volo con il presidente sull’Air Force One) e il ministro della Giustizia Loretta Lynch lo ha definito «il più cospicuo mai raggiunto con una singola entità nella storia degli Stati Uniti».
Soddisfazione anche alla British Petroleum. Per l’amministratore delegato del gigante britannico Bob Dudley «viene risolta la maggior parte delle pendenze legate a quell’incidente e si crea una certezza sui pagamenti per tutte le parti coinvolte».
Alberto Flores D’Arcais

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Si distese come un sudario sul mare, grande quanto metà dell’Italia, 173 mila chilometri quadrati di morte nera sul Golfo del Messico fino al delta del Mississippi e agli acquitrini dei bayou in Louisiana, e dopo cinque anni dall’aprile del 2010 il conto è arrivato: la BP, la British Petroleum, dovrà pagare 18,7 miliardi di dollari per i danni provocati dalla piattaforma Deepwater Horizon.
È il record storico in materia di danni ecologici, questo che la Corte federale d’appello, la magistratura americana più alta prima della Corte suprema, ha inflitto alla società proprietaria, e quindi responsabile, dell’isola artificiale costruita dalla coreana Hyundai Industrie che vomitò dal pozzo esploso nella Fossa di Macondo un milione e 300 mila litri di greggio al giorno, per sei mesi. I giudici federali hanno convalidato la sentenza del tribunale di primo grado che ribolliva di collera e di parole durissime contro la BP: «incoscienza», «incuria», «incompetenza criminale», «tentativi di copertura». E se 18,7 miliardi non sono una sentenza di morte per un gigante del petrolio che fattura 360 miliardi di dollari l’anno, è la conferma che la pazienza, l’acquiescenza delle istituzioni e dei giudici di fronte ai danni ambientali causati dall’industria si sta esaurendo.
Nessuna altra catastrofe ecologica aveva mai raggiunto prima l’enormità di un disastro che rovesciò milioni di petrolio su mille e 700 chilometri di costa, dalla Florida, all’Alabama, al Mississippi, alla Louisiana, al Texas, devastando la fauna e la vegetazioni in un ecosistema fragilissimo, di acque costiere poco profonde e di paludi rifugi per uccelli migratori. I sei mesi di lotta che i tecnici e gli specialisti mobilitati da tutto il mondo condussero, fra aprile e settembre, per tappare il buco alla profondità di mille e seicento metri, furono la reppresentazione della impotenza di fronte a un’eruzione che sfidava le capacità dei robot sottomarini, che sfidava tutti i mezzi di contenimento schierati, dalle dighe galleggianti ai batteri disseminati per digerire il greggio.
Erano trascorsi, in quel 2010, 21 anni da un altro disastro che aveva ipnotizzato il mondo, davanti alla cristallina bellezza dell’Alaska stuprata dalla super petroliera della Exxon, la “Valdez” da 250 mila tonnellate, incagliata e squarciata nel fiordo del Principe William. La Exxon era stata condannata a pagare complessivamente 900 milioni di dollari ai 38 mila abitanti e allevatori di salmone, e il disastro aveva imposto la costruzione di superpetroliere a doppia chiglia. Da allora, il principio del “chi sporca paga” ha continuato a radicarsi, almeno negli Stati Uniti. La stessa Exxon, oggi Exxon Mobil, ha concordato una multa di 250 milioni di dollari con lo Stato del New Jersey, per l’inquinamento di aria, terra e falde acquifere provocato da una sua raffineria. Neppure i tentativi di allungare il guinzaglio alle industrie, voluti dalle amministrazioni più tenere con il big business, quasi sempre repubblicane, e di mettere invece la museruola alla Agenzia per la protezione ambientale, ha retto completamente.
Di fronte alla sempre più diffusa convinzione che il prezzo umano, immediato e a lungo termine, dell’inquinamento non sia più sostenibile, fra le eroiche battaglie individuali delle Erin Brockovich in California contro il cromo esavalente emesso dalla società del gas, o di Lois Gibbs, la madre che condusse la battaglia legale quando furono scoperte migliaia di tonnellate di rifiuti tossici sepolti nel Love Canal accanto alle cascate del Niagara, la legislazione si è fatta via via più stringente. E oggi sono le autorità locali, più che gli individui o le collettività nella “class action”, a chiedere conto degli scempi ambientali.
La battaglia politica fra la Presidenza Obama e i repubblicani per la costruzione del gasdotto Keystone che dovrebbe portare il petrolio canadese dallo Stato di Alberta all’Oklahome, che la Casa Bianca contrasta, e il duello infinito per i permessi di trivellazione nell’Atlantico che oscilla fra permissività e restrizioni variabili da governo a governo, sono soltanto i momenti di scontro più vistosi, come lo sono le polemiche sul “fracking” o sulla spremitura degli scisti bituminosi. Sono battaglie che scuotono interessi giganteschi, ma smuovono insieme pulsioni politiche e nazionalistiche, perché promettono la prospettiva seducente dell’indipendenza americana dalle importazioni di greggio.
Poi, in un giorno di aprile, nel Golfo esplode una piattaforma in mezzo al mare e il rovescio dell’abbondanza di petrolio allunga la propria ombra. La catastrofe di Deepwater Horizon non raggiunse le dimensioni apocalittiche dell’esplosione a Bhopal dell’impianto della Union Carbide nel 1984, che consumò quattro mila vite all’istante e, si calcola, almeno altre 30 mila nel tempo. Né ha diffuso il terrore globale che la piuma radioattiva di Chernobyl stese sul mondo nel 1986, poi riaccesa dal disastro di Fukushima. La contraddizione fra la fame ancora insaziabile di energia di origine fossile e i rischi crescenti dell’estrazione e del trasporto rimane a ogni pieno di carburante, a ogni accensione di lampadina. Ma la stangata record sulla BP- che ancora oggi inonda gli schermi della tv americana con spot commerciali per convincere il pubblico sulla propria redenzione ecologica – resterà. Come le immagini soffocanti dell’ombra nera sul Golfo scattate dai satelliti, a memoria futura.
Vittorio Zucconi