il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2015
La Tangentopoli di cinquant’anni fa, tra banane e tabacchi. Il ministro delle Finanza Giuseppe Trabucchi intascò una mazzetta milionaria che giustificò così: «È solo un finanziamento al partito»
Era il 1961 e una tremenda infestazione di peronospora devastò grandi coltivazioni italiche di tabacco. Al governo, dall’anno prima, Amintore Fanfani presiedeva il suo terzo esecutivo e al ministero delle Finanze sedeva uno stravagante veronese di nome Giuseppe Trabucchi, noto per andare in giro senza cravatta. Fanfani e Trabucchi, due democristiani del partito-sistema che ha imperato in tutta la Prima Repubblica. Così come dc era un notabile del Mezzogiorno, Carmine De Martino, che in Parlamento venne descritto senza alcuna indulgenza dal senatore comunista Edoardo Romano Perna: “Un uomo avvezzo a identificare la sua famiglia con se stesso, le sue società con la sua famiglia, lo Stato con le sue società e, infine, se stesso con lo Stato: un uomo per il quale essere parlamentare, o sottosegretario agli affari esteri, o esponente politico del partito di maggioranza, o affarista, era sempre la stessa cosa”. Un berlusconiano d’antan, insomma.
Assolto in Parlamento a colpi di maggioranza
De Martino era un “vespista”, dal nome di una piccola corrente moderata della Balena Bianca, nata in un club Vespa a Roma. Ma il protagonista della storia fu il ministro Trabucchi perché nel 1961 favorì due aziende di De Martino in una grossa fornitura di tabacco importata dal Messico. Anziché, da titolare delle Finanze, attivare i monopoli di Stato per l’acquisto di tabacco, Trabucchi fece fare un affare da un miliardo e trecento milioni di lire al collega di partito. Contro il parere del direttore generale del ministero. Lo scandalo fu enorme e quattro anni dopo, tra la fine di giugno e la seconda decade di luglio del 1965, il Parlamento si riunì in seduta comune per deliberare lo stato di messa in accusa, in quanto ex ministro, del senatore veronese. La Dc però riuscì a salvare il suo senatore già nell’allora commissione inquirente, dai reati dell’accusa: contrabbando, interesse privato e abuso di potere. Le votazioni furono tre e l’esponente dc venne “assolto” con una maggioranza risicatissima. Era esattamente mezzo secolo fa, il 30 giugno. In cambio del favore a De Martino, Trabucchi intascò una mazzetta milionaria che lui giustificò come un finanziamento illecito al suo partito.
Cinque giorni in seduta comune
Da venerdì 16 luglio a martedì 20 luglio del 1965, il Parlamento si riunì in seduta comune a Montecitorio per dire l’ultima parola sul processo a Trabucchi di fronte alla Corte Costituzionale, dopo l’assoluzione nella commissione inquirente. La discussione fu infinita e a presiedere l’assemblea ci fu anche Sandro Pertini, vicepresidente della Camera. La Dc si fece scudo dei voti ottenuti in commissione e accusò l’opposizione, sia di destra sia di sinistra, di “giustizia politicizzata” e di “linciaggio politico”. Scrisse il Corriere della Sera: “Il vigore con cui la magistratura ha messo a nudo le nostre gravi disfunzioni amministrative, e anche l’inefficienza dei controlli, di quelli politici come di quelli amministrativi, ha sollevato verso di essa una incontenibile ondata di appassionata speranza”. Una Mani Pulite d’antan, insomma.
Terracini e l’Italia pulita
Uno dei primi a intervenire fu un grande comunista, Umberto Terracini, tra i padri costituenti della Repubblica. Terracini partì dal clima dell’epoca: “Proprio in questi giorni si sono diffuse notizie di nuovi gravi episodi di immoralità, di disonestà, perpetrati da pubblici amministratori, contro i quali l’autorità giudiziaria sta già procedendo. L’atmosfera è pesante e torbida, ma noi vogliamo dissolverla. L’Italia che chiamerò pulita, che è poi quella della stragrande maggioranza degli italiani, attende che noi ci poniamo a quest’opera”. Ma la questione morale fu da subito la bestia nera del molle corpaccione democristiano e lo Scudocrociato difese sino all’ultimo Trabucchi. Quando si arrivò al voto vinsero i sì alla messa in stato d’accusa davanti alla Consulta, però non fu raggiunto il quorum necessario di 476 voti. Quasi alle undici di sera, i presenti furono 902. Uno, lo stesso Trabucchi, si astenne. Poi: voti a favore 461, contrari 440. La seduta finì in rissa, al grido di “Ladri” e “Assassini”.
L’uomo di Andreotti in manette
Un paio di anni prima, la parabola al governo del senatore veronese senza cravatta si era conclusa con un altro scandalo. Quello delle banane. Proprio così. Venne infatti arrestato l’avvocato Franco Bartoli Avveduti, che era stato segretario particolare del ministro Trabucchi alle Finanze. A Trabucchi, Bartoli Avveduti era stato caldamente raccomandato da Giulio Andreotti. L’avvocato era anche presidente dell’Assobanane, l’azienda del monopolio delle banane. E da presidente dell’Assobanane truccò un’asta per le concessioni ai grossisti di banane. Tangenti, ancora. In cambio dell’assegnazione delle licenze. In un verbale dell’associazione grossisti di banane, i magistrati trovarono questa frase: “Il consiglio ha deciso di stanziare una cifra per ungere le ruote”. Fu coinvolta anche la figlia di Trabucchi, che si difese dicendo di aver voluto solo favorire la “domestica, parente di un grossista”. Dopo mezzo secolo, siamo sempre la Repubblica delle banane.