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 2015  luglio 02 Giovedì calendario

Come si vince senza essere geni. A Wimbledon, l’arte di Marin Cilic e l’eliminazione di Ricardas Berankis

Sapendo che mi sono alfine arreso all’umano impegno di scrivere un’autobiografia, che preferirei chiamare eterografia, il giovane collega di un blog mi chiede delucidazioni. Come mi comporto, per la mia colonnina? Per prima cosa, rispondo, chiedo consiglio alla redazione, nel caso abbiano un’idea più brillante delle mie, spesso confuse o inesistenti.
Se capita, però, una grande sorpresa, non evito per solito di darne notizia, e cerco addirittura di capire il perché. Qualche volta, occhieggio anche i compiti dei miei compagni più bravi, magari Chris Cleary, del New York Times, che ieri ha avuto un’idea che mi sarebbe piaciuta, quella della crescente influenza delle Agenzie che rappresentano economicamente i tennisti, per nostra fortuna nei limiti di una tradizionale moralità.
Infine, quando non accade niente lo dico, come ho fatto ieri, pensando di raccontare qualcosa accaduto martedì, ed evitato per il patriottismo che mi ha spinto a scrivere del povero Bolelli, il cui avversario, Nishikori, è finito all’infermeria soltanto dopo aver vinto. La vicenda sulla quale mi ero inoltrato ieri, era stata quella della giovane e bella Eugenie Bouchard, la canadese capace di raggiungere sorprendentemente la finale dello scorso anno, ma altresì incredibilmente battuta 12 volte nelle ultime 14 partite di questo 2015.
Avevo tentato, ma mi ero reso conto che, privo dell’aiuto di un Fulvio Scaparro, analista non meno che recente autore de “L’Antispocchia”, non avrei fatto molta strada. E allora? Guardo raramente il computer, che ha sostituito, per la maggior parte dei presenti in sala stampa, gli occhiali o addirittura gli occhi. E tuttavia, all’apparire del viso di Nole Djokovic, seduto fianco al solito guardiano di Wimbledon, che dovrebbe evitare domande inadatte, ho raggiunto la sala delle conferenze.
Non certo attratto dai gossip di giornali spazzatura indigeni, che hanno a lungo parlato di segnalazioni che Becker farebbe al suo datore di lavoro dalla tribuna, quasi si potesse giocare un tennis sotto dettatura. Volevo chiedere, ovviamente in modo diplomatico, se Nole si sentisse nella condizione che mi aveva fatto pensare alla possibilità di un nuovo Grand Slam, prima della finale di Parigi. Finale perduta soltanto perché Wawrinka, un paio di volte l’anno, è più imbattibile del Federer giovane. Ottenuta una risposta diplomaticamente affermativa, mi stavo affrettando verso un amico che gestisce le scommesse, proibite ai giornalisti, quando Peter, un collega austriaco, mi ha autorevolmente afferrato una mano, per intimarmi: «Vieni a vedere l’eliminazione di Cilic». «Cilic? Ma contro chi gioca?». «Contro Ricardas Berankis». «Una ragazza? Non è possibile, va bene il matrimonio unisex, ma il singolare misto non è ancora lecito».
L’amico mi avrebbe però spiegato che Ricardas, in Lituania, è un nome maschile, e l’avrei quindi seguito sul Centre Court, per ammirare un tipetto a me sconosciuto, peraltro allievo di Rainer Schuettler, uno del poker dei grandi allenatori ATP, del quale fa parte anche l’italiano in esilio Castellani. Questo Berankis avrebbe, una volta di più dimostrato che si può vincere uno Slam senza essere un vero genio, com’è accaduto a Cilic. Infatti, dopo tre ore e mezza di partita, quel tipo piccolino e biondino, addirittura numero 90, ha avuto sulla racchetta due palle-break probabilmente decisive per rimandare Cilic a Medjugorje.
Ma sapete cosa accade, nelle sedi ufficiali di apparizioni. Qualcosa che non si può certo spiegare con la razionalità di un gioco. E Ricardas ha così perduto.