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 2015  luglio 01 Mercoledì calendario

La Tav e la gioventù beota e lobotomizzata che tira le pietre. Sui militari. E sul proprio futuro senza sapere perché

È così, è esattamente così: la maggioranza dei militanti No Tav rischia di apparire beota e lobotomizzata come la ragazza intervistata dal Corriere di ieri, una 19enne vestita di nero che «va dove la chiamano» e vive «in giro» e lancia pietre sui poliziotti, anche se lei, della specifica causa No Tav – dice – non sa nulla, non sa neppure chi siano i Black bloc che pure le prestano la maschera antigas, e insomma: confonde la nebbia dei lacrimogeni con quella del suo cervello. I centri sociali sono il suo welfare, lei va dove le dicono di andare, «mi hanno spiegato che bisognava attaccare la polizia» e allora lei ha attaccato la polizia. Ascoltare questa ragazza fa piangere più dei lacrimogeni ma rischia anche di attaccarci la malattia dell’oblio, dunque di farci perdere in contorni di una vicenda – il cantiere Tav di Chiomonte, in Valsusa, da noi visitato poco tempo fa – che è semplicemente una cosa unica al mondo e va rispiegata, forse, come faremmo appunto con un beota.
Allora: anzitutto non è solo un cantiere, è una fortificazione militare come non ce ne sono neanche in Medio Oriente: perlomeno non a difesa di presidi produttivi. Solo per le recinzioni (in muratura e con filo spinato speciale importato da Israele) l’extracosto è di 20 milioni di euro, a carico del contribuente. All’interno è tutto ordinato e senza polveri – ma non entriamo nel merito di questo, ora – e ci sono palazzetti operativi, una control-room (le stanze con cento televisori che si vedono nei film) e mezzi blindati “Lince” dappertutto, e soldati oltreché operai, servizi vari, la mensa, tutto ciò che serve in una base militare e che non dovrebbe servire in un cantiere. E come mai? Ce l’ha ricordato il direttore del cantiere, di cui non mettiamo nome né fotografia perché gira scortato; noi lo conosciamo da più di vent’anni e per molto tempo non ci ha neppure detto che era venuto a lavorare lì, sul fronte. La prima manifestazione fu l’8 dicembre 2005: decine di migliaia di persone e violenti scontri con le forze dell’ordine; i No Tav che superano i posti di blocco, sfondano le recinzioni e provocano seri danni a mezzi e materiali. Una settimana dopo altri manifestanti irrompono nella sede della Cmc di Ravenna, occupandola per due ore e intimidendo il personale. Il giorno dopo altra manifestazione a Torino (si parla di 50mila persone) che è quando sul treno Torino-Milano il parlamentare leghista Mario Borghezio viene aggredito e finisce in ospedale. Saltiamo altre manifestazioni (tante, a bloccare i lavori) e saltiamo direttamente a quando i sabotaggi si fanno più seri.
Nella notte del 27 giugno 2011 un centinaio di persone si piazza nella soprastante autostrada e tira giù di tutto per dieci ore, ma è niente rispetto a quanto sarebbe successo la settimana dopo. Sabato 3 luglio c’è una manifestazione di 15mila persone anche normali (sindaco, amministratori, cittadini), ma ecco che dal bosco spuntano in migliaia con mazze, fionde lunghe, catapulte, razzi: sette ore di autentica guerra con le forze dell’ordine («di civile c’ero solo io con 7 o 8 operai») e il risultato saranno 300 feriti veri, militari con danni gravi e permanenti e centinaia di giorni di malattia («nell’area del museo avevamo improvvisato un micro-ospedale da campo con le barelle: veniva l’elicottero e si portava via i feriti») con due dita di sangue per terra. Quella volta fu anche rapito un carabiniere (armato) e se lo portarono nel bosco: massacrato e poi restituito. I No Tav volevano prendere l’area con una vera azione di guerra, ma non riuscirono. Era un salto di grado. Dì lì in poi fu guerra vera, e per raccontarla tutta servirebbe un libro. Parlerebbe di guerra e guerriglia, di black bloc che tirano pietre, bombe carta, biglie, bulloni, oggetti metallici, petardi, fuochi d’artificio, sedie, bottiglie con ammoniaca: e bilanci con centinaia (centinaia) di feriti tra le forze dell’ordine, soprattutto. A quel punto il governo Monti dichiarò il cantiere come interesse strategico nazionale: da allora si turnano circa 400 militari al giorno (più degli operai) e le recinzioni sono raddoppiate, la videosorveglianza è totale e c’è l’illuminazione notturna. I No Tav pacifici sono progressivamente spariti: le famiglie coi ragazzini non hanno nessuna voglia di trovarsi a fianco di un anarchico che spara con la fionda in faccia ai poliziotti. Da migliaia i militanti sono rimasti in centinaia: ma sono le truppe scelte. A quel punto cominciano le denunce e i processi (e le condanne, e le minacce ai magistrati) mentre gli attacchi si fanno sempre più pericolosi, perché gli incendi possono mettere in serio pericolo gli operai che lavorano per chilometri dentro alla galleria. Ci vuole mezz’ora di trenino – abbiamo provato – per arrivare in fondo allo scavo: e lì, se manca l’ossigeno, salute e tutti.
Da allora la guerra è rimasta guerra: ma tutto, al tempo stesso, ha assunto anche una dimensione, come dire: più turistica e di costume. È qui che fioccano le ragazze come quella intervistata dal Corriere, che non sanno quello che fanno né perché lo fanno. Quando chiudono le scuole, molti ragazzi fanno il “campeggio resistente” e gli attacchi ricominciano. A sbirciare il cantiere, all’ingresso, è sempre pieno di simpatici vecchietti: ma pare che prendano misure, segnino le targhe, compilino mappe del cantiere come una – fatta benissimo – che è spuntata su internet: e qui c’è la polizia, qui staziona il “Lince”, queste sono le imprese che ci lavorano (con indirizzo) e infatti molti attentati si sono trasferiti alle sedi delle imprese. Da segnalare, a fine settembre 2013, la presa di posizione dello “scrittore” Erri De Luca sul sabotaggio che è cosa buona e giusta: sarà un caso che quattro imprese sono state incendiate di lì a poco. «C’è una generazione di ragazzi completamente rovinata», ci dice il direttore dei lavori, «perché sono cresciuti con l’idea che sia normale fronteggiare la polizia. Hanno denunce che gli precluderanno il futuro. La Tav fa lavorare centinaia di imprese e decine di milioni sono già ricaduti sul territorio, molta gente ha cambiato approccio anche perché qui c’era una disoccupazione più alta della media nazionale. La Fiat non c’è più, noi siamo il secondo datore di lavoro di tutta la valle con una cantiere che è ancora microscopico». Però c’è la gioventù beota e lobotomizzata che tira le pietre. Sui militari. E sul proprio futuro.