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 2015  giugno 30 Martedì calendario

Immaginate un manifesto di sei metri per tre con un uomo ritratto dalla cintola in giù, in costume, con il pene eretto, al quale è fissata una pietra a dimostrazione di potente virilità e affianco la scritta «Saluti da Rimini». Ecco a voi il clamoroso ritorno di Maurizio Cattelan...

«Saluti da Rimini», recita la scritta semplice, affettuosa e rassicurante. Peccato che accanto alle parole, in formato sei metri per tre, ci sia la figura di un uomo ritratto dalla cintola in giù, in costume, con il pene dichiaratamente eretto, al quale è fissata una pietra a dimostrazione indiscutibile di potente virilità. Allegoria dell’uomo italiano? Chissà. Figura simbolica del bagnino-amatore, strazio e delizia di tante turiste straniere? Può darsi. Nuova immagine identitaria di Rimini? A quanto pare sì, almeno per Andrea Gnassi, sindaco di Rimini (del Pd), visto che ha affidato, con una certa dose di coraggio, a Maurizio Cattelan e al suo «complice», il fotografo Pierpaolo Ferrari, un «progetto per la città» (curato da Maria Cristina Didero) che di fatto rappresenta una vera campagna di arte pubblica per una più sensibile visibilità della città di A marcord.
Fatto sta, che all’alba di domani Rimini si sveglierà con un’epifanica sorpresa: nella notte, una squadra di attacchini comunali affiggerà lungo le strade più di mille manifesti con otto soggetti diversi dal sapore vintage ma decisamente contemporanei, ironici e irriverenti, tipici della coppia Cattelan-Ferrari.
Oltre all’esibizione sul culturismo erotico, eccoli: un uomo in giacca e cravatta gialli, seduto su un divano giallo e sommerso, sempre in tinta, da un mare di spaghetti col sugo al pomodoro; una donna, stile anni Cinquanta, sognante di fronte a un ambiguo liquido che arriva non si sa da quale fonte (vino bianco, birra, spuma, qualcos’altro?); una sfilata di salamelle disposte come sbarre di una cella da cui evadere; il sedere bene in vista (di donna, di uomo depilato?) ricoperto di dentifricio tricolore; una donna in pareo con la pelle bruciata dal sole accostata a un’aragosta; una vecchia Bmw gialla, tipica del turista tedesco anni 70, ricoperta di lattine di birra; infine, una contemporanea Estasi di Santa Teresa, incarnata da una ragazza posseduta dal piacere e appagata da una montagna di patatine fritte.
Un ritratto dei vizi e delle virtù della Romagna, dunque, dove si accarezzano le seduzioni del cibo sino ad ammiccare alla sensualità dell’esistenza da «vitelloni» tra donne, bagni, lambrusco e balere.
«Perché ho accettato? Non ce l’ho fatta a resistere alla tentazione di riempire una città di carta igienica!», risponde Maurizio Cattelan, che ride e si diverte a giocare con le parole: la carta igienica in questione è infatti «Toiletpaper», la celebre rivista di immagini dalla distribuzione semiclandestina (presente però in tutti i musei del mondo) che ha creato con il compagno di viaggio Pierpaolo Ferrari e che è la base da cui si sviluppa questo nuovo, inaspettato progetto.
Dall’archivio di «Toiletpaper», infatti, sono state accuratamente scelte alcune immagini, «dedicate», come spiega. Così, da domani, sino al 30 settembre, la città diventerà contenitore e protagonista, avvolta da manifesti come messaggi che mettono a nudo simbolismi, contraddizioni, mitologie e realtà. Il tutto, con un linguaggio graffiante (ma neanche troppo) a metà tra estetica pubblicitaria e arte contemporanea.
Cattelan, 55 anni, maglietta grigia, capelli arruffati, parla via skype dal suo piccolo ed essenziale appartamento di Chelsea a New York: non ha perso quell’aria di perenne ragazzo ribelle, nonostante i capelli grigi («Da quando ho fatto la prima collettiva non si sono più fermati») che l’ha reso riconoscibile tra i più celebrati artisti nel panorama internazionale, sicuramente tra i più affermati, corteggiati, quotati e, soprattutto, discussi. Cattelan, anche se ironicamente si dichiara «pensionato» (ha pubblicamente annunciato nel 2011 di non fare più nuove opere), come era prevedibile, non si è certo rifugiato sulle panchine dei giardinetti: tanto per fare cose tranquille, ha collocato nel dicembre 2012 una sua scultura, che riproduce Hitler mentre prega, nel ghetto di Varsavia («È il simbolo del male assoluto, della paura, quell’installazione aveva un valore spirituale. Un valore per quello che rappresenta, per quello che è stato e per quello che non vogliamo sia di nuovo») è riuscito, due anni prima, a installare la grande scultura di una mano col dito medio davanti alla Borsa di Milano («È stato un colpo di culo, ora non sarebbe più possibile»), ma ha anche avuto una monumentale mostra al Guggenheim e, visto che non voleva più fare l’artista, si è messo a curare l’arte di altri. Risultato? Una mostra davvero bella a Torino, che interpreta con intelligenza lo spirito, la storia e i luoghi della città. Cattelan rimescola costantemente le carte: nelle sue azioni ironiche, provocatorie, irritanti, disarmanti o surreali, porta sempre con sé l’idea di un’arte che entra prepotentemente nella vita e viceversa. E ora, accade anche a Rimini.
Che cosa ha combinato, un’altra delle sue? Non ha pensato al mito di Rimini, alla sua storia, a Fellini? «Rimini è una di quelle città che ognuno porta con sé. E poi, Fellini ce l’ha fatta un po’ sognare, ce l’ha dipinta in modo fantastico e surreale. Vi ricordate le scene del Grand Hotel, i cammelli, le donnine velate, gli amori consumati o sognati in quelle stanze? Ma oggi gli scenari di quel fantastico mito non esistono più. Il boom è finito. E Rimini deve reinventarsi».
Ma davvero bisognava svecchiare l’immagine di Rimini con un pene in erezione? Cattelan sorride. «Ma sì, è l’uomo romagnolo che fa, a suo modo, sollevamento pesi. È un’immagine vitale, sì, vitale. Me lo vedo: uno, due, uno, due...». E giù due risate.
«Che tipo di reazione mi aspetto? Non so, cosa possono dire... ci sono quattro salsicce, qualche lattina di birra, al massimo un sedere, ma quanti ne vedi in spiaggia? Francamente non credo che ci saranno polemiche. Certamente io non lavoro mai pensando a questo. Se ci dev’essere qualcosa, spero sia un dibattito civile, costruttivo, sul senso del fare, non polemiche sterili. Vorrei che ci fosse qualcuno che dice: guarda cosa sta facendo questo e allora facciamo anche noi qualcosa di nostro per la nostra città».
Ma che cosa rappresenta per lei questa operazione? «È una città che ha deciso di raccontarsi, dopo tanti film e libri, anche su un formato insolito. Non è una pubblicità, è il racconto di una storia. Poi, va ricordato, non è un mio lavoro solitario: è un lavoro di team. E come in tutti i lavori di squadra può venir fuori una maialata o una cosa simpatica».
Tutto è andato liscio col sindaco? Nessuna discussione o polemica su qualche foto? «Abbiamo fatto delle proposte, alcune sono andate, altre no, come è normale. Nessuna censura».
E com’è stato misurarsi con il linguaggio del manifesto che ha identificato nel passato Oliviero Toscani? «Toscani è uno che ho guardato molto e da lui ho imparato tanto. Negli anni Novanta ha aggiunto un linguaggio che prima mancava, la frontalità. Adesso è abbastanza comune. Anzi, adesso proprio non te le fanno fare le cose come le sue... Ha fatto la cosa giusta al momento giusto». Poi Cattelan si ferma e dice sorridendo: «Ma noi non siamo a quel livello. Ce ne vuole ad arrivare a Toscani».
Certo, conoscendo il linguaggio provocatorio di Cattelan, paradossalmente, queste immagini appaiono quasi teneramente moderate. «Sono spazi pubblici, che altro si poteva fare... E poi, c’è un periodo per tutto. E in più ci dev’essere una ragione. Altrimenti tutto diventa gratuito. Credo sia stata fatta una cosa in linea con i tempi. Poi, sulla qualità del progetto, valutiamolo quando è in mezzo alla gente».
Cattelan parla molto seriamente, abbandona le battute, consapevole che rapportarsi col linguaggio fuori dalle gallerie impone una responsabilità diversa dalla libertà dell’intervento strettamente artistico. Non a caso, ha collaborato anche con «Le Monde» («Alcune immagini lì, non sono passate, una di queste era una lametta con il marchio Merkel che tagliava una vena. Il bello era che la lametta era davvero una Merkel!») e ora collaborerà anche con «Die Zeit». È come se il «pensionamento» abbia portato un po’ di più saggezza, una maggior dose di moderazione, ma anche uno stato di intensa irrequietezza e la condizione da «pensionato» gli sta davvero stretta: «Oggi, per assurdo, faccio di più e faccio di meno. Mi ricordo bene di certe notti: avevo i pensieri che mi giravano intorno come una zanzara e diventavano figure, immagini, progetti. Ora non mi succede più da troppo tempo. La creatività è una cosa strana. Cosa mi piacerebbe fare adesso? Il mio lavoro individuale. Sì, questo mi manca davvero. Mi sento bollire, mi sento bollire, mi sento bollire...».
E allora perché non ricomincia? Quando finirà questo «autopensionamento»?
«Non lavorare stanca. Sono una pentola a pressione, prima o poi, scoppia. E credo che scoppierà più prima che poi...».
Allora, nell’attesa del prossimo (e a quanto pare vicino) scoppio, torniamo proprio alle differenze tra arte, servizio per un comune e lavoro per una rivista: «"Toiletpaper” è un’esperienza interessante ma diversa da me. Fosse stato un lavoro artistico in questi anni sarebbero venute fuori tre o quattro opere. Il tempo dello sguardo per strada è veloce. Il messaggio deve essere sintetizzato facilmente, mantenendo, se sei bravo, un senso nascosto. Sono curioso di vedere le reazioni. In verità non c’è un vero modo per misurare la qualità. Quello che funziona è la persistenza. Quindi, per ora, dico a tutti: Saluti da Rimini». E giù una risata.