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 2015  maggio 27 Mercoledì calendario

Parla Carlo Cottarelli: «Io sconfitto sulla spending review? No, non si tratta di uno sprint, ma di una maratona. L’Italia è divisa e senza fiducia, ecco perché è difficile tagliare»

«La cosa che più mi ha colpito nell’esperienza italiana è stata la complessità e la frammentazione del sistema pubblico. Lo sapevo, ovviamente, ma non pensavo che fosse così forte. Così come non pensavo che ci fosse una tale resistenza contro le aggregazioni e le semplificazioni: ottomila Comuni, oltre diecimila società partecipate dagli enti locali, il fatto che ogni amministrazione debba avere la sua sede in ogni capoluogo di provincia...».
Carlo Cottarelli è appena tornato a Washington, dopo aver guidato la missione del Fondo monetario internazionale – di cui è direttore esecutivo per l’Italia e altri cinque Stati – e racconta così i (pochi) giorni della sua precedente vita professionale. Quella da Commissario per la revisione della spesa pubblica. Proprio oggi, frutto di quell’anno in cui è stato l’uomo su cui si appuntavano molte speranze e qualche illusione italiana, esce da Feltrinelli il suo libro intitolato «La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare».
E qual è la verità sulla nostra spesa pubblica?
«Il paradosso dell’Italia è che ci sono moltissime regole, che dipendono dal fatto che nessuno si fida degli altri. Ma il problema è che cercando di regolare nel minimo dettaglio alla fine non si regola più nulla davvero. La mancanza di fiducia caratteristica dell’Italia genera sia regole tanto minuziose quanto inapplicabili, sia complessità delle strutture organizzative. Un sistema in cui c’è poca fiducia negli altri è un sistema dove è difficile mettersi insieme. Così ci ritroviamo con 34 mila centrali di acquisto della pubblica amministrazione. Ma come si controllano 34 mila centrali di spesa?».
Le auto blu, le spese delle Province, le cosiddette «leggi mancetta» che finanziano singole associazioni o interessi particolari, colpiscono molto. Ma quanto pesano davvero?
«Non molto. Ma per l’appunto sono significativi dal punto di vista dell’impatto sull’opinione pubblica. Ad esempio i costi della politica ammontano a 5 miliardi circa, che su una spesa pubblica primaria di 720 miliardi sono poca cosa. Ma certo bisogna ridurre la spesa anche in queste aree».
Dove si continua a spendere, invece è in sanità e pensioni...
«Ma questo è un dato comune a tutti i Paesi avanzati, che ormai sono un incrocio tra un ospedale e una casa di riposo. In Italia si spende tanto sulle pensioni, mentre nella sanità abbiamo avuto un comportamento di spesa virtuoso».
Restano però enormi differenze regionali. Al Nord si spende meno che al Centro e al Sud...
«Questo è uno dei grandi temi della spesa pubblica. Le spese del personale delle Regioni sono meno di 20 mila euro per abitante in Lombardia quasi 180 mila euro in Molise. La Liguria e la Calabria sono quasi uguali come dimensioni ma la prima spende 37.500 per abitante in personale regionale, la seconda il doppio. E questo vale anche per le Regioni a statuto speciale, che hanno la tendenza a spendere molto più delle altre».
Dopo la sua esperienza come Commissario pensa che in Italia ci sia un sentimento nazionale contrario ai tagli di spesa?
«No. L’impressione che ho avuto è anzi che ci fosse un notevole interesse e apprezzamento, perché ridurre gli sprechi significa ridurre la tassazione. E qualche risultato c’è stato perché nel 2015 la spesa si è ridotta di 12 miliardi, che al netto di altri aumenti di spesa diventano 8 miliardi, ossia uno 0,5% del Pil. Purtroppo non si vede nelle statistiche perché gli 80 euro dati ai redditi bassi vengono considerati nuova spesa invece di taglio delle tasse».
Lei è ripartito per Washington dopo solo uno dei tre anni che aveva a disposizione come Commissario per la spending review. Una battaglia vinta o persa?
«Ha visto la citazione che ho messo all’inizio del libro?».
Sì, recita: «Ma se io avessi previsto tutto questo... forse farei lo stesso». È l’Avvelenata di Guccini. Non proprio l’Inno alla gioia...
«È vero, ma è l’ultima strofa della canzone, quella in cui si dice che alla fine ne è valsa la pena. Il lavoro della revisione della spesa va avanti anche se lo conducono altre persone: non è uno sprint, ma una maratona. Anzi una corsa a staffetta. Qualche risultato c’è non soltanto nei tagli alla spesa, ma anche nel mettere in piedi riforme strutturali come quella sull’acquisto di beni e servizi».
Ma alla fine si potrà tagliare la spesa pubblica senza abbattere lo Stato sociale?
«Di fronte alle posizioni estreme ed opposte di chi dice che non si può tagliare niente e di chi sostiene che andrebbe tagliato tutto, la soluzione sta nel mezzo: tagliare ragionevolmente. La mia proposta era quella di ridurre la spesa di 32 miliardi in tre anni; un 2% circa del Pil che non cambierebbe certo il Welfare State».