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 2015  maggio 27 Mercoledì calendario

Dopo le accuse degli americani l’Iraq si sveglia e vuole riconquistare Ramadi. Ma non sarà facile: gli uomini dell’Isis non sono rivoluzionari in ciabatte. Hanno arsenali di prima grandezza e disponibilità di armamenti non convenzionali, oltre ai capitali per rifornirsi sul mercato clandestino

Ramadi: la parola d’ordine dell’operazione lanciata ieri mattina dalle forze irachene è riprendere il capoluogo di Al Anbar, e allo stesso tempo assicurarsi il controllo dell’intera provincia, caduta fin troppo rapidamente nelle mani dei jihadisti del sedicente Stato Islamico. Le truppe di Bagdad non devono affrontare solo il fuoco dei fondamentalisti, ma anche l’esame dell’alleato americano, che nei giorni scorsi non ha risparmiato critiche agli iracheni. Ieri era il nome dell’operazione a suscitare l’irritazione di Washington: le milizie l’hanno battezzata “Labaik Ya Hussein”, cioè “Eccomi, Hussein”, con riferimento al nipote del Profeta, figura fondamentale per il credo sciita. Ma prima ancora era stato il segretario alla Difesa Usa, Ashton Carter, a sottolineare che Ramadi è caduta «troppo in fretta» perché «le forze irachene non hanno mostrato alcuna volontà di combattere».
La durezza dei commenti statunitensi serve due scopi. Il primo è stuzzicare l’orgoglio dei combattenti iracheni, il secondo sottolineare ancora che la guerra contro lo Stato Islamico non vedrà truppe di terra americane, i governativi devono far da soli. Ma il richiamo del Pentagono non è adeguato alla realtà del campo di battaglia, perché una serie di elementi ridimensionano la presunta “remissività” rimproverata ai soldati del nuovo Iraq.
Prima osservazione: le truppe dell’Is non sono rivoluzionari in ciabatte. Hanno arsenali di prima grandezza e disponibilità di armamenti non convenzionali, oltre ai capitali per rifornirsi sul mercato clandestino. Le armi sono frutto di conquiste e razzie, ma anche di traffici e passaggi di mano più o meno opachi, magari spedite al Fronte Al Nusra da Arabia Saudita o Qatar, quando il nemico più pericoloso sembrava Bashar Assad.
In mano all’Is ci sono persino elicotteri Black Hawk e caccia sovietici MiG-21 e MiG-23 strappati rispettivamente alle guarnigioni di Mosul e all’aviazione siriana. Non è ben chiaro se gli uomini di Al Baghdadi siano in grado di pilotarli, ma forse sì, visto che Damasco vanta l’abbattimento di due MiG sul cielo di Raqqa. L’Is ha poi diverse decine di carri armati sovietici, compresi i moderni T-72. Voci non confermate parlano di uno o due potentissimi carri americani Abrahams, catturati anch’essi a Mosul. Batterie di artiglieria pesante, missili antiaerei brandeggiabili (cioè portati da un uomo e lanciati dalla spalla), lanciagranate e missili leggeri filoguidati completano lo scenario. Fonti non verificabili parlano della disponibilità di armi chimiche, compreso un deposito di iprite, il “gas mostarda” che sarebbe già stato usato contro i peshmerga curdi. Gli ordigni proverrebbero da un vecchio deposito di Saddam Hussein, ma non è chiaro come queste armi siano sfuggite ai capillari controlli internazionali avviati in Iraq dopo l’invasione americana. Quanto alle armi non convenzionali: l’abilità a costruire mine artigianali IED ha un utilizzo modesto per quello che si chiama “Stato” Islamico, visto che basa il suo potere appunto sul controllo del territorio. Resta la disponibilità di aspiranti martiri, kamikaze a piedi o autobomba che siano, una carta importante già giocata in abbondanza a Falluja e a Ramadi: in contesti di equilibrio la motivazione fanatica può persino fare la differenza.
C’è poi un elemento che i vertici Usa cercano di dimenticare: sono proprio gli ex ufficiali iracheni un tempo fedeli a Saddam Hussein, sunniti, abili e spesso istruiti nelle scuole occidentali, che comandano le truppe di Al Baghdadi. Se per loro la motivazione ideale e religiosa può essere trascurabile, certo non lo è l’onta di essere stati licenziati con un tratto di penna nella campagna di de-Baathificazione, l’azzeramento del partito di Saddam, voluta dal- l’allora proconsole americano a Bagdad, Paul Bremer, in quello che la Storia ricorda come l’errore più grave dell’intera operazione Iraqi Freedom.
Non va sopravvalutato, ma neanche dimenticato, infine, l’elemento etnico-religioso: Ramadi è il cuore della zona che un tempo si chiamava “triangolo sunnita”. È quasi inutile aggiungere che qui gli integralisti godono di simpatie e sostegno, mentre dei soldati governativi (in gran prevalenza sciiti) si ricordano più facilmente gli eccessi e le rese dei conti. La riconquista della città è comunque alla portata, ma il prezzo di sangue sarà molto alto.