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 2015  maggio 06 Mercoledì calendario

«Io, sbirro di Borsellino, finito nel dimenticatoio». Rino Germanà, il poliziotto sfuggito a tre killer di Cosa Nostra, andato in pensione senza medaglie, racconterà la sua vita fatta di mafia, agguati e ironia in un libro

La mafia siciliana cercò di ucciderlo nella stagione stragista del 1992. Lui, Rino Germanà, catanese di origine, 63 anni, era tornato a fare in quell’anno il dirigente del commissariato di Mazara del Vallo. Il 14 settembre di ventitré anni addietro, all’ora di pranzo, sulla strada che costeggia la spiaggia mazarese di Tonnarella, fu inseguito e fatto segno di colpi di kalashnikov da parte di un commando di super killer di Cosa nostra composto da Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano. Scene da far west quel giorno davanti a una folla di gente che stava al mare, Germanà che scendeva dall’auto rispondendo al fuoco, il commando che, senza mai abbandonare l’auto guidata dall’attuale super latitante Messina Denaro, continuava a sparare attraverso i finestrini, per poi decidere di andar via. «Sembrava che stessero girando la scena di un film» disse uno dei tanti testimoni sulla spiaggia. E come se fosse davvero una fiction, quella scena sul lungomare di Tonnarella si chiuse con un mazarese che apriva come rifugio per Germanà la porta di casa facendo segno con la voce e le mani: «Commissario, commissario venga qui». «Non appena la porta di quella casa si chiuse sapete cosa abbiamo fatto? Ci siamo seduti e abbiamo pregato Padre Pio» raccontò un giorno Germanà a un’affollata assemblea studentesca.
I killer, quel 14 settembre 1992, per quanto ritenuti massimi e autorevoli esponenti della mafia, dovettero fuggire via dimostrando, per fortuna, incapacità nell’attuare il compito loro affidato da Totò Riina. Quasi a suggellare che quella fosse la conclusione degna di una fiction del famoso Montalbano di Camilleri. 

Una nuova carriera
Quella magnifica penna dello scrittore siciliano è destinata a non restare sola, anzi il maestro Camilleri si appresta ad avere un simpatico concorrente, che come scrittore non avrà certo bisogno di «inventarsi» nulla. Chi? Lui, proprio Rino Germanà. Da domani il poliziotto che diede molto fastidio ai mafiosi, e non solo quel giorno sul litorale di Tonnarella, lascerà il servizio, andrà in pensione. Di fatto si è già accomiatato da questore di Piacenza, ultimo incarico ricoperto. Cosa farà adesso? «Ho imparato a conoscere gli uomini, mi sono relazionato con tanta gente, ho cominciato a scrivere un libro, ho già scritto 50 pagine, voglio raccontare con ironia una serie di fatti». Il primo? «Racconterò di quando per anni abbiamo cercato uno che era defunto». Si trattava di Totò Minore, capo della mafia di Trapani, ucciso nel 1983 ma rimasto nel limbo degli «scomparsi» fino al 1991, quando i pentiti rivelarono il suo assassinio.

Lodi e rimpianti
L’ironia è un’arma che non manca al questore che va in pensione. Eppure avrebbe tanta ragione a lamentarsi di uno Stato che sa solo piangere i propri caduti ma sa anche creare rimpianto tra i suoi più fedeli servitori, solo perché rimasti in vita. Resta inquietante e senza risposta l’ordine di tornare a Mazara nella terribile stagione stragista del ’92 e del ’93. Germanà aveva già fatto carriera arrivando alla Criminalpol siciliana, ma dovette tornare a fare il commissario, compiendo un clamoroso passo indietro nella carriera. Avrebbe dovuto sbarcare a Palermo, dopo la strage di Capaci, per come desiderava il giudice Paolo Borsellino che, però, non ebbe il tempo di far pervenire la richiesta al Viminale.


Il dimenticatoio
Quanto gli sembrava lontana l’emozione di essere riuscito a sfuggire all’attentato. Quella giornata, Germanà, l’aveva cominciata sotto il piombo, a Mazara, ma l’aveva conclusa a Roma, al Viminale, dove l’allora ministro Mancino, tenendolo sottobraccio vistosamente incerottato, lo offrì compiaciuto a telecamere e fotoreporter. 
Poi di Rino Germanà non si seppe più nulla. Sparito nel dimenticatoio, lui che, da investigatore, aveva fatto le pulci a Cosa nostra, a quella criminale quanto a quella che oggi si direbbe dei «colletti bianchi», quella annidata dentro politica e banche (suo il famoso rapporto sulla Banca Sicula dell’odierno senatore D’Alì, sotto processo in appello per concorso esterno dopo una sentenza stile «Andreotti» pronunciata in primo grado: prescrizione e assoluzione). Come sottoposto ad una sorta di «soggiorno obbligato» fuori dalla Sicilia, finì persino a fare il dirigente del commissariato di frontiera a Bologna. 
Ma Germanà in tutti questi anni non si è mai lamentato, «ho sempre ubbidito ai voleri dell’amministrazione», dice adesso. Sopravvivere ad un agguato mafioso, per poi magari non vivere la gioia di vedersi premiato. 
Quell’agguato interruppe la sua carriera, ripresa solo molti anni dopo con la nomina a questore e dopo che un articolo su L’Unità della giornalista Sandra Amurri fece tornare alla memoria del Viminale quel funzionario capace e bravo. Questore dapprima a Forlì poi a Piacenza.


Lo sbirro e il boss
Tra gli aneddoti che riguardano il «Germanà sbirro», quello che racconta delle numerose convocazioni nel suo ufficio del «patriarca» della mafia belicina, quel Ciccio Messina Denaro, padre di Matteo. Spazientito e umiliato, una volta il vecchio boss gli chiese se dovesse «ringraziarlo» per tanta attenzione. Lo sbirro gli rispose con un semplice, eloquente sorriso. «Mantengo sempre l’insegnamento di mio padre che mi consigliava di sorridere soprattutto “a chi ti vuole male”, perché “prima o poi il sorriso ti verrà restituito”». «Tante gratificazioni ho ricevuto, ma la più grande, dopo l’attentato, fu la gioia di avere un terzo figlio, Francesco».


La medaglia che manca
Ma c’è stato qualche mafioso che gli ha sorriso? Germanà racconta: «Un giorno un killer agrigentino che avevo arrestato, uno che aveva ucciso tante persone, mi disse: “Dottore, ogni sera quando chiudo gli occhi quei morti me li trovo tutti davanti”. Questo è meglio di un sorriso perché la dice lunga sull’infelicità di essere mafioso». Oggi è lui a decidere di restare a vivere da pensionato lontano dalla Sicilia, nel «profondo Nord». «Qui ormai è la mia vita». Va in pensione mentre da un anno attendono risposta in Parlamento, dal ministro Alfano, due interrogazioni, presentate dall’onorevole Mattiello e dalla senatrice Ricchiuti, sul perché mai «il Viminale abbia dimenticato di far proposta al Capo dello Stato del conferimento a Germanà della medaglia d’oro al valor civile». Lui, da questore di Piacenza ha avuto maniera di appenderla al petto di un suo agente che si era distinto in un conflitto a fuoco. Lui, che mandò all’aria il piano di morte di tre super killer della mafia, attende, ma – assicura – «senza avere recriminazioni da fare». Come Montalbano, che va via dalla stanza del suo questore facendo spallucce.