la Repubblica, 6 maggio 2015
La guerra del football e la politicizzazione del pallone. La Palestina vuol far sospendere Israele dal calcio mondiale per “violazione dell’etica sportiva”: la loro Federcalcio deve essere punita per le restrizioni imposte dalle forze di sicurezza che limitano il movimento dei giocatori e bloccano le attrezzature. Una patata bollente che Blatter, che corre per il quarto mandato da presidente, cercherà di tenere lontano dalla sede della Fifa a Zurigo
C’è animazione nei modesti e sgangherati uffici della Federcalcio, perché la Palestina si prepara alla sua prima “guerra del football”. Dopo anni di rinvii, mediazioni e promesse non mantenute la Palestinian Football Association è riuscita a far mettere all’ordine del giorno del vertice Fifa del 29 maggio a Zurigo la proposta di sospendere Israele dal calcio mondiale per “violazione dell’etica sportiva”. La Federcalcio israeliana, dicono i palestinesi, deve essere punita per le restrizioni imposte dalle forze di sicurezza che limitano il movimento dei giocatori, bloccano le attrezzature. Una mossa che la Federcalcio palestinese meditava da tempo e che finora le promesse dell’onnipotente Sepp Blatter avevano allontanato dall’Olimpo del calcio mondiale. Israele ieri ha replicato: «I palestinesi vogliono politicizzare il calcio».
Non sarà facile per la Palestina. Per ottenere la sospensione di una Federazione sono necessari i tre quarti dei voti dei 209 Paesi aderenti. Una patata bollente che Blatter, che corre per il quarto mandato da presidente, cercherà di tenere lontano dalla sede della Fifa a Zurigo. I palestinesi sono convinti di poter raggiungere la quota necessaria, grazie ai voti di Asia, Sudamerica e Africa. Per Blatter non sarà facile sventare stavolta la minaccia e annuncia che farà «di tutto per convincere i palestinesi a ritirare la mozione». È contrario anche il potente presidente della Uefa Michel Platini. Entrambi convinti che la politica debba stare lontano dallo sport.
Giocare al calcio in Palestina, una terra sotto occupazione militare, non è facile, bisogna davvero crederci. Ci vuole motivazione, impegno, passione e molta pazienza. Le trasferte o gli allenamenti possono diventare un calvario fra check-point, controlli, fermi di sicurezza. La Premier League palestinese, un torneo a 12 squadre, non riesce ad avere un calendario regolare. Spesso i giocatori non ottengono il permesso delle autorità israeliane per spostarsi da una città all’altra della Cisgiordania; altre volte non è stato permesso di espatriare ai calciatori della nazionale, con la partita persa a tavolino. Giocatori sono finiti in carcere per aver cercato di aggirare i controlli come Mahmoud al Sarsak mediano della nazionale, detenuto senza processo per oltre due anni e uscito dopo uno sciopero della fame di quasi 90 giorni. Oppure come Jawhar Nasser Jawar e Adam Abd al-Rauf Halabiya, falciati a febbraio dell’anno scorso a un check point perché le loro borse – quelle con la tuta e gli scarpini – erano sembrate sospette ai militari israeliani. Oppure ci sono casi come quello di Khaled Mahdi, mezzapunta di Gaza, che non torna a casa da 4 anni: ha paura che una volta entrato nella Striscia gli israeliani non lo facciano più uscire.
In Palestina il calcio è molto più di uno sport, è il modo per dimostrare di esistere, ripete sempre con convinzione il presidente Abu Mazen. È lo strumento di un riscatto cercato per anni con le armi in pugno. La mente di tutto questo è un uomo dai modi bruschi, con un passato da guerrigliero. Jibril Rajub ha passato 17 anni nelle carceri israeliane prima di diventare capo della Sicurezza preventiva ai tempi di Arafat. Adesso il suo nome circola fra coloro che potrebbero correre per la presidenza dell’Anp dopo Abu Mazen. Ma il voto non è per ora alle viste, adesso Rajub vuole vincere la “guerra del football”.