Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  maggio 04 Lunedì calendario

«Hanno iniziato a prendermi a calci, pugni e mazzate. Per fortuna avevo il casco, se no non so come sarebbe finita». Parla Antonio D’Urso, l’agente di polizia preso a bastonate dai black bloc

A sera, nel giorno in cui Milano scende in strada con scope e pennelli per ripulire le strade della barbarie No Expo, un amico e collega lo sfotte con l’ironia esorcizzante di cui sono intrisi i commissariati di polizia: «Il primo maggio non si scorda mai». Milano, primo maggio 2015. «Vero – dice lui – venerdì è stata una giornata che non dimenticherò. Come fai?». La festa dei lavoratori. «Io ero lì a fare il mio lavoro, semplicemente il mio lavoro. Che in quel momento era fermare questi delinquenti che lanciavano di tutto nascondendosi dietro gli alberi». Alla fine la festa gliela stavano facendo i black bloc. La firma è una gragnola di lividi sul fianco e l’avambraccio sinistro. «In quei punti non sei coperto dalle protezioni. Sono scivolato a terra sull’erba bagnata. Poi giù sul marciapiede. Hanno iniziato a prendermi a calci, pugni e mazzate. Per fortuna avevo il casco, se no non so come sarebbe finita».
Quarantasei anni, 15 in polizia. Tanta strada e centinaia di ore di ordine pubblico tra stadi e cortei di protesta. Il vicequestore Antonio D’Urso dirige un commissariato di “trincea”: Quarto Oggiaro, hinterland milanese, già ribattezzato la “Scampia” del Nord, 35mila abitanti, un territorio diviso fra due clan criminali. È lui il poliziotto vittima del vile agguato delle tute nere in largo Mario Pagano. Quattro incappucciati spuntano dalle aiuole e dalle piante che separano il parco dalla strada. Prendono D’Urso alle spalle perché lo “sbirro” ha afferrato per un braccio una ragazza, Alice, 33 anni, milanese – poco dopo verrà arrestata assieme ad altri quattro manifestanti violenti – e sta cercando di portarla via. Gli assalitori gli sono addosso. Iniziano a pestarlo, finché l’intervento di altri militari li mette in fuga.
Le immagini – catturate dall’Ansa – rimbalzano in rete e diventano una delle sequenze simbolo della devastazione No Expo. D’Urso racconta a Repubblica quei momenti di inferno. Gli ultimi di una giornata lunga e complicata vissuta in prima linea per fronteggiare il “blocco nero” che ha distrutto un pezzo di Milano. «Voglio premettere: su quell’episodio – lo chiama così, con il linguaggio asciutto dei tutori dell’ordine – ci sono dei verbali di arresto, si farà un processo. Dovrò testimoniare. Quindi in questo momento posso solo dire quello che ho visto e subìto. Anche se sono stati pochi attimi». Guardando le foto colpisce, oltre alla violenza cieca, camuffata, la presenza di altri due incappucciati lì accanto. Che a loro volta filmano e fotografano il pestaggio del poliziotto steso a terra.
Cosa succede, dunque, in largo Pagano? «Non ricordo con precisione che ora fosse. So che abbiamo finito il servizio alle 18. Il corteo si era ormai praticamente sciolto». Già. Le tute nere, i mille teppisti, dopo la “svestizione” tra via Boccaccio e Conciliazione, si erano volatilizzati: molti rientrando nell’ultimo pezzo del serpentone di manifestanti “buoni”, altri allontanandosi nelle strade laterali. «Ma c’era ancora gente che faceva casino – ricorda D’Urso – Continuavano a lanciare oggetti di ogni tipo, sassi, bottiglie, pezzi di ferro. Noto una ragazza, in particolare. È a volto scoperto e quindi memorizzo la sua faccia. Era una delle più scatenate. Faceva parte di un gruppetto». È Alice, capelli scuri, vestita di nero. Quando la arrestano, venti minuti dopo, la militante ringhia contro i poliziotti: «Non c’avete proprio un cazzo da fare... La mia sfiga è stata quella di tornare indietro, uno sbirro mi ha riconosciuto, “arrestatela, arrestatela, lei è cattiva”». Poi, sprezzante, la provocazione rivolta a uno dei due celerini: «Facciamo sesso selvaggio in cella?».
Antonio D’Urso Alice era riuscito a bloccarla proprio in largo Pagano. «La riconosco, in mezzo alle piante. Il mio dovere era arrestarla. Mi avvicino e la afferro a un braccio. Lei si gira di scatto e mi tira contro una bottiglia, che riesco a schivare. La stavo portando dai colleghi quando sono usciti da un cespuglio alcuni suoi compagni. All’improvviso». D’Urso, in quegli istanti, tra le aiuole, si trova solo. È in inferiorità numerica. Quattro, cinque manifestanti contro un uomo in divisa. «Mi hanno spinto e sono caduto a terra. Uno, con la maschera antigas, cercava di spaccarmi la visiera con un oggetto di ferro. L’altro (giubbino marrone, cappello con visiera, occhiali scuri) mi colpiva con un bastone. Se non avessi avuto il casco, la conchiglia, i parastinchi e le altre protezioni sarebbe finita molto peggio. Ora invece sono ammaccato, ma niente di grave».
Sabato sera il vicequestore era di nuovo in servizio. Con il pensiero fisso su quei cinque minuti di furia della teppaglia. «Io volevo arrestarli. E quando sono riuscito a riconoscere la ragazza ho fatto il mio dovere. Non mi aspettavo l’agguato, non pensavo sarebbero usciti altri in quel momento». Alcuni testimoni – ricostruendo la sequenza dell’imboscata – ipotizzano, senza averne la certezza, che D’Urso per qualche istante si fosse staccato dal reparto. Che per «fare gli arresti» possa essersi preso un rischio allontanandosi di una decina di metri dal resto del contingente con il quale operava. Un azzardo in situazioni così delicate di ordine pubblico. Il poliziotto vuole chiarire. «No, nessun azzardo. Non mi sono allontanato. Il reparto era alle mie spalle. La prospettiva delle fotografie inganna: in realtà, dopo l’agguato e quando cado a terra, nel giro di pochi secondi arrivano subito i colleghi a salvarmi. E a quel punto gli assalitori scappano».
Quanta paura ha avuto di restare sotto? «La paura fa parte del mio mestiere, quando sei sulla strada in situazioni come queste può sempre succederti qualcosa, lo sai». Quello che più interessa a D’Urso, adesso, è altro: assicurare alla giustizia altri hooligan neri. «Per fortuna dopo l’imboscata siamo riusciti a arrestare altri quattro facinorosi. Adesso spero che, anche grazie alle immagini, si riesca a identificarne altri ancora». Lui li ha visti mentre imbrattavano, spaccavano, incendiavano, mentre lanciavano razzi e petardi. «Con il mio reparto eravamo in piazzale Cadorna. A chiudere uno dei varchi di uscita dalla piazza. Poi, quando da via Carducci si sono spostati verso via Boccaccio continuando a distruggere, anche noi ci siamo spostati in largo Pagano. Li abbiamo aspettati lì».
Dopo che le tute nere si sono spogliate, i poliziotti sapevamo che sarebbe stato più facile fermare qualcuno. Sono quasi le sei di sera e la lunga giornata di Antonio D’Urso sta per tingersi di nero. «Ma alla fine è andata bene. I fermi li abbiamo fatti». La gloria per il poliziotto aggredito arriva dal web. Con la campagna virale “Noi siamo con lui” moltissimi cittadini gli stanno manifestando solidarietà. La pagina ha sfondo azzurro: ci sono le quattro foto del pestaggio e la scritta 1 maggio 2015. «Ringrazio tutti. Quello che penso di questa triste giornata è riassunto lì».