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 2015  maggio 01 Venerdì calendario

Il disgelo della Turandot. L’opera, mai terminata da Giacomo Puccini, è la più adatta per propiziare l’allontanamento della crisi

Sgelare. È un verbo che nel linguaggio sociale, lontano dalle pratiche gastronomiche, non si usa molto a Milano. Le strade non ghiacciano più come una volta, meno che mai i corsi d’acqua o le pozze. Il gelo in questi ultimi anni si avvertiva nell’economia, nell’occupazione.
L’Expo, per mille motivi, si è presto trasformata in un laboratorio di speranze per “sgelare” finalmente un po’ di benessere e allontanare la crisi. Non c’era opera più adatta di “Turandot”, mai terminata da Giacomo Puccini, per propiziare quanto detto. La mano del maestro toscano – che morì a Bruxelles il 29 novembre 1924 – si fermò all’aria di Liù «Tu che di gel sei cinta», al momento della sua morte.
Il “disgelo” è nel finale che egli non riuscì a scrivere: mancava la parte in cui la principessa si sarebbe abbandonata finalmente all’amore. La terminò Franco Alfano su invito di Ricordi e, un’ottantina di anni più tardi, Luciano Berio. La prima soluzione è nota e il pubblico della Scala ben la conosce; la seconda sarà eseguita per la prima volta nel massimo teatro italiano sotto la bacchetta di Riccardo Chailly in questo 1° maggio nel concerto d’apertura di Expo. È un rito propiziatorio oltre che un elaborato frammento musicale.
Berio lo compose nel 2001 riprendendo 23 dei complessivi 30 schizzi lasciati da Puccini; la prima assoluta fu diretta dallo stesso Chailly nel 2002 al Festival delle Canarie. Va ricordato che compositore e direttore si consultarono a lungo per creare questo finale, tanto che non è esagerato parlare di continuo confronto tra i due. Va altresì detto che per questa nuova parte di Turandot è in corso una serie di discussioni: vi partecipano i nostalgici di Alfano, i nemici della musica contemporanea e coloro che si dimenticano che anche il medesimo Alfano ebbe dei problemi, persino con Arturo Toscanini.
Terminare un’opera classica rimasta incompiuta è un atto creativo che ogni tempo ha il diritto di realizzare per poterla far rivivere o reinterpretare, per ridarle una voce diversa da quelle del passato. Berio è uno dei grandi compositori del Novecento e Chailly uno dei massimi direttori della nostra epoca: non è il caso di aggiungere altro, se non il fatto che la loro soluzione è quella dei giorni che viviamo.
Il passaggio dal lutto per Liù allo “sgelamento”, all’ardore di Calaf e a un rapido lieto fine non è impresa semplice. Berio ha utilizzato il più possibile gli schizzi, inclusi quelli strumentali in cui Puccini si discostava dal suo stile: delle complessive 307 battute del finale 133 sono del compositore toscano, 174 di Berio. Né mancano rimandi a temi già presenti nel resto dell’opera, compreso il celebre “Nessun dorma” (c’è anche in Alfano). Si è dinanzi a un pluralismo di stili, che è anche caratteristica dell’opera. Lo “sgelamento” è attuato da Berio seguendo le indicazioni di Puccini: «Nel duetto si può arrivare a un pathos grande. E per giungere a questo io dico che Calaf deve baciare Turandot e mostrare il suo amore alla fredda donna.
Dopo baciata con un bacio che dura qualche secondo (…) le dice il suo nome sulla bocca» (così il maestro nella lettera a Adami, novembre 1921). A questo punto Berio ha dovuto concretizzare quell’ “intimità amorosa” in un certo lasso di tempo per rendere credibile il consenso della principessa: lo ha individuato in un interludio strumentale che ha evocato da Wagner, al quale aveva fatto riferimento lo stesso Puccini prima
dell’aria di Liù.
Insomma, Berio non scimmiotta Puccini ma offre all’ascoltatore quanta più fedeltà era possibile ricavare dai lacerti del compositore toscano. E Chailly sa dirigere come nessun altro questo percorso virtuoso alla ricerca di uno “sgelamento”. Nato ai nostri giorni e immaginato da Puccini.