la Repubblica, 28 aprile 2015
I 70 anni di Jarrett, l’uomo che suona dal nulla: «Invecchiare non mi piace, è solo decadenza fisica. Dentro sono quello di sempre, la mia arte non ha età. Trovo pace solo nel fare le cose che amo»
Ha portato la musica in un’altra dimensione. La sua. Jazz e classica non hanno confini per lui; geniale col trio o con l’orchestra, poetico, tormentato persino romantico nelle improvvisazioni. Libero e rigoroso, Keith Jarrett, il pianista che l’8 maggio compie settant’anni, pretende rispetto. Dai discografici, dalla critica, dal pubblico. Non solo per i cinquant’anni di carriera che lo hanno visto accanto a Art Blakey e Miles Davis e lo hanno portato dal Village Vanguard alla Carnegie Hall e alla Scala; non solo per la strenua dedizione alla musica che negli anni Novanta gli causò quella terribile sindrome da stanchezza cronica che rischiò di compromettere carriera e creatività; e neanche per quel miracoloso The Köln Concert, l’album del 1975 che con quattro milioni di copie vendute è il campione assoluto della storia del jazz. Ma soprattutto per devozione all’arte e riverenza all’esecutore che, raggomitolato sulla tastiera – come lo vedremo di nuovo il 18 maggio al San Carlo di Napoli – si contorce tra estasi e agonia per estrarre magia dai suoni. «Ricordo bene il concerto che tenni al San Carlo esattamente sei anni fa», esordisce Jarrett. «Come tutti sanno sono piuttosto esigente durante le performance. Il pubblico giapponese è il più tranquillo, quello americano ha imparato a non tossire, ma quello napoletano li ha superati tutti: silenzio assoluto in sala, non si sentiva volare una mosca anche quando suonavo pianissimo, salvo poi esplodere alla fine in un entusiasmo tipicamente partenopeo. Sa che per un certo periodo ho vagheggiato di trasferirmi in Italia? Ma alla fine sono uno stanziale, vivo nella stessa casa di Warren County, nel New Jersey, da 44 anni».
Neanche a chiedergli se è lì che festeggerà i 70 anni. Banalità. «Vivo minuto per minuto. Non ho risposte sul domani. Sono gli altri che fatalmente mi costringono a riflettere sul tempo che passa», taglia corto. «Quarant’anni fa non avrei certo immaginato che a questa età sarei stato in grado di pubblicare due dischi contemporaneamente», aggiunge alludendo alle nuove uscite per la Ecm previste per l’8 maggio: Creation, un cd con il meglio dei concerti tenuti l’anno scorso in Europa, Giappone e Canada, e Barber/ Bartók / Jarrett, in cui si misura con i due grandi compositori. «Samuel Barber è una voce unica dell’America. Il concerto per piano che eseguo mi colpì quando ero ancora un ragazzo. Quanto a Bartók posso dire di aver trascorso tutta la mia vita artistica in sua compagnia, avevo un maestro di piano che era ossessionato da lui».
Quando è iniziato il suo interesse per il repertorio classico?
«Fa parte della mia educazione, non ho avuto altri maestri che insegnanti di musica classica, non c’erano docenti di jazz al Berklee College di Boston. Anche negli anni in cui suonavo con Miles Davis non ho mai smesso di eseguire in casa Beethoven o Prokofiev o Purcell».
Riuscì facilmente a conciliare jazz e classica negli anni Ottanta?
«Nient’affatto. Dovetti dare un taglio al resto, improvvisazioni solistiche, concerti con il trio, tutto. Sono mondi paralleli, devi chiuderne uno nell’armadio per permettere all’altro di venir fuori».
Creation, l’altro album in uscita, è un disco di piano solo, l’ennesima testimonianza delle sue improvvisazioni. Come ci si sente sul palco col pensiero di dover partire da zero?
«Non so neanch’io cosa aspettarmi, mi affido all’esperienza. Ho solo la certezza che qualcosa accadrà. Non so esattamente quando e dove o in quale parte del concerto, ma c’è un momento in cui la musica si svela nella mia testa in maniera meravigliosa».
Cos’ha in mente quando appoggia le sue mani sulla tastiera?
Una melodia? Uno schema?
«No, niente di niente. Una volta Miles Davis mi chiese (imita alla perfezione la voce roca del trombettista, ndr ) “How do you play from nothing?” (Come fai a suonare dal nulla?). Io risposi quel che rispondo anche oggi: “Non lo so, lo faccio e basta”. Di solito parto con quattro accordi in la minore, senza sapere dove mi condurranno. Mi fido dei messaggi che arrivano dall’interno del mio corpo, ma non saprei dire, in quegli istanti, perché suono quel che suono».
Che importanza hanno i dettagli, il teatro, il pubblico, il camerino, l’accoglienza?
«Tutto può fare la differenza, e questo spiega perché i momenti migliori arrivano sempre nel secondo set; è lì che finalmente riesco ad abbandonarmi totalmente alla musica; non ricordo neanche dove mi trovo. Dov’è la mia testa? Dov’è voltato il mio cervello? Cosa voglio fare? Qualsiasi sia la risposta, voglio che quel momento duri fino alla fine del concerto; non voglio organizzarlo in una struttura musicale ma tuttavia è una complessa struttura di sentimenti e emozioni».
Quanto ha dovuto sacrificare per arrivare a questo livello?
«Ogni cosa, tutto. Quando parlo con gli studenti la prima cosa che chiedo è: a cosa non rinunceresti mai? Se rispondono, uscire con gli amici, avere del tempo libero, divertirmi, ribatto: non ho nulla da insegnarti. C’è un solo modo di fare questo mestiere, dedicargli la vita. Io sono tra i fortunati, per la relazione trentennale che ho con la mia seconda moglie e per essermi tenuto alla larga dalle droghe. Ma niente avrebbe potuto trascinarmi via dalla musica. Io trovo pace solo nella realizzazione delle cose che amo».
Invecchiare fa paura o è garanzia di maggiore consapevolezza?
«Entrambe le cose. Zia Haider Rahman, uno scrittore del Bangladesh, scrive nel suo In the Light of What We Know : “Solo l’età rivela la nostro percorso, il bisogno impellente di dire qualcosa. La gioventù non ha niente da dichiarare”. …Invecchiare… a chi piace invecchiare? È solo un decadimento fisico, dentro sono quello di sempre, la mia arte non ha età».