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 2015  aprile 28 Martedì calendario

Padoan cambia rotta e dà il via alla rinegoziazione dei derivati. Quei 42,06 miliardi di perdite che dovevavo essere solo teoriche, improvvisamente, destano non poche preoccupazioni

Dopo avere detto per settimane che il peso dei derivati sul debito pubblico italiano non è preoccupante, e che la attuale perdita teorica (il mark to market negativo) di 42,06 miliardi di euro è solo virtuale, improvvisamente il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan inverte la rotta. E dal Tesoro si fa filtrare l’intenzione di ristrutturare i contratti derivati, dando l’impressione che quella perdita teorica sui derivati sia assai più vicina alla realtà di quanto si fosse fino ad oggi immaginato. A scuotere il ministro sono le polemiche sia tecniche che politiche sulla eccessiva esposizione in derivati delle finanze pubbliche italiane. Come riportato sul numero di Libero di domenica scorsa e poi contenuto nella puntata di Report di quella stessa serata, il Tesoro ha già perso sui derivati 16,95 miliardi di euro fra la fine del 2011 e la fine del 2014: un dato che evidenzia una gestione di quei sostanziali contratti di riassicurazione sui tassi molto discutibile, visto che gli altri 18 paesi dell’area euro (Grecia, Portogallo, Irlanda e Cipro compresi) messi insieme hanno perso nello stesso periodo meno dell’Italia.
Dopo che queste cifre sono emerse nell’ultimo rapporto Eurostat, non sono mancate polemiche da parte dell’opposizione. Ancora ieri il capogruppo di Forza Italia, Renato Brunetta, twittava: «Ma che bravi al Mef, grande professionalità. Ci hanno assicurato a caro prezzo... sui rischi sbagliati!». A quel punto dal Tesoro è stata fatta filtrare l’improvvisa retromarcia. Prima si è fatto presente che quella perdita virtuale da 42,06 miliardi di euro non può lievitare, perché deriva dalla discesa dei tassi di interesse (il Tesoro si era invece assicurato sul possibile rialzo), che comunque oltre lo zero non può andare. Poi è arrivato il nuovo slogan in grado di confondere le acque: «Phasing out», che lo stesso ministero traduce in parole un pizzico più povere in «un processo di dismissione di alcune tipologie di derivati e di ristrutturazione di altre». È un annuncio assai rischioso sia per il debito pubblico italiano che per le tasche dei contribuenti. Perchè «ristrutturare» o «dismettere» significa fare emergere la perdita che c’è su ciascun contratto: da virtuale diventerebbe reale. Detta così sembra un’operazione suicida: per le nuove regole di contabilità dei bilanci pubblici stabilite nel 2010 ed entrate in vigore nel 2013 quei derivati chiusi o ristrutturati trasformerebbero quel mark to market negativo in aumento del debito pubblico italiano, creando guai seri dovuti al trattato sul fiscal compact.
I contratti derivati sottoscritti dallo Stato italiano nelle sue varie articolazioni attualmente in essere ammontano a 187,9 miliardi di euro. Di questi 163,1 riguardano lo stato centrale, ed è su questa somma che si sta verificando oggi la perdita di 42,06 miliardi di euro. Un buco spaventosamente grande, pari al 25% del nominale dei contratti esistenti. In una famiglia o in un’impresa che non abbia intenzione di fallire la campanella di allarme sarebbe suonata con il classico «Stop losses, basta perdite!» appena superati i 16-17 miliardi di euro di perdite, il 10% del nominale. A quel punto sarebbe stato saggio chiudere o ristrutturare i contratti in essere. Farlo oggi è tardivo e crea grande danno alle finanze pubbliche, perché come ha ben spiegato il professore della Bocconi Marcello Minenna in Parlamento «quelle perdite diventano immediatamente debito». Perchè allora un annuncio simile? La risposta non può che essere nel contenuto di quei contratti di derivati, che è inspiegabilmente segretato dal governo italiano. È lì che sono contenute le clausole e le penali di estinzione anticipata sia per il Tesoro italiano che per le banche contraenti. Ed è lì che può esserci l’unica risposta possibile: è stato dato alle banche un vantaggio così grande che le perdite rischiano di salire ben oltre quel 25% del nominale. Allora si rischia di meno a disdettare ora, pagando le misteriose penali contrattualmente previste.