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 2015  aprile 24 Venerdì calendario

Quei 92.299 contratti di lavoro in più a marzo. L’incrocio tra il nuovo contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs act e la nuova stagione della decontribuzione totale per le assunzioni a tempo indeterminato avviata in gennaio produce i suoi primi effetti. Per non sprecare questo avvio di «primavera del lavoro» bisogna mantenere la spinta per le riforme, mirare la politica industriale su innovazione e crescita e non sprecare le risorse del bilancio pubblico

Sono dati provvisori, manchevoli, suscettibili di correzioni. Ma la “partita doppia” delle attivazioni e delle cessazioni registrata entro il 25 di ogni mese dal ministero del Lavoro segnala una novità. Il saldo è positivo per 92.299 unità: a marzo sono più gli assunti che i licenziati o i pensionati. Non sono rilevati i dipendenti pubblici, non ci sono i contratti “interinali”, né il lavoro domestico.
Segnalati i caveat metodologici, però non si può non vedere il segno di uno scongelamento, di un potenziale nuovo corso. L’incrocio tra il nuovo contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs act (in vigore dal 7 marzo) e la nuova stagione della decontribuzione totale per le assunzioni a tempo indeterminato avviata in gennaio produce i suoi primi effetti. Le riforme danno un primo esito positivo. Le imprese stanno spostando l’attenzione verso contratti a maggiore stabilità a discapito di quelli temporanei. Cosicché i contratti “full time senza scadenza” sono saliti del 49,5% (rispetto al marzo 2014). E questo dovrebbe essere considerato positivo soprattutto da chi fino a ieri si scagliava contro la precarizzazione (ma, viste le dichiarazioni della Cgil, ciò non sembra).
Il dato in sé potrebbe non essere considerato sufficiente a dare prova di un vero e proprio nuovo corso in atto, anche perché il marzo 2014 era stato un mese “basso”, e la portata della performance si potrebbe giudicare meglio se il Governo fornisse con regolarità la serie storica dei dati (come ha più volte chiesto questo giornale). Per lo più si tratta ancora di occupazione sostitutiva e non aggiuntiva, ma quel dato, anche se grezzo, unito ad altri indizi ancora frammentari offerti dall’economia reale fa ben sperare. È di ieri il risultato brillante dell’export extra Ue di marzo(+13,2%) unito a un’ancor più incoraggiante ripresa delle importazioni (+9%). Non è solo merito del mini-euro, significa anche che l’Italia, Paese trasformatore per eccellenza, fa funzionare meglio il suo inimitabile motore manifatturiero. Un Paese che, tra l’altro, nonostante la latitanza delle politiche pubbliche alla voce investimenti, compra macchinari per migliorare i propri standard competitivi perché sta cambiando la percezione del futuro e della fiducia.
Il boom dell’auto, che esce da una stagione di regressione dei consumi a prima degli anni 60, è un altro segnale, così come lo è la ripresa (anche se flebile) per fatturato e ordinativi in genere. La soddisfazione emersa in chi ha saputo sfruttare al meglio una vetrina globale come il Salone del mobile di Milano fa guardare bene al futuro, ma non la crisi dell’elettrodomestico o la stagnazione che perdura nei consumi interni, così come mostrata dall’inamovibilità intorno allo zero del dato sulle vendite al dettaglio.
I comportamenti dell’economia reale sono per lo più orientati a far ripartire il Paese. Per non sprecare questo avvio di «primavera del lavoro» bisogna mantenere la spinta per le riforme, mirare la politica industriale su innovazione e crescita e non sprecare le risorse del bilancio pubblico. È già tempo di pensare a come rendere strutturale il taglio al cuneo fiscale.