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 2015  aprile 24 Venerdì calendario

A Milano si inaugura la Casa della Memoria. Non è propriamente una casa, quanto piuttosto un guscio. Più deposito, magazzino e archivio che non monumento. Un edificio ricoperto d’immagini d’autore: volti anonimi dei grandi e piccoli fatti dal dopoguerra a oggi

Un parallelepipedo di venti metri per trentacinque, alto 17 metri e mezzo; il rivestimento in mattoni policromi ricorda gli antichi edifici lombardi. Sono tassellature e avvicinandosi prendono la forma d’immagini. In alto, scene d’insieme: manifestazioni, piazze ricolme di gente, cortei, luoghi devastati; in basso, volti di donne e di uomini. La Casa della Memoria che s’inaugura oggi a Milano non è propriamente una casa, quanto piuttosto un guscio. Più deposito, magazzino e archivio che non monumento, è nelle intenzioni di chi l’ha progettato, lo studio baukuh, composto di giovani architetti milanesi, una Schola nel senso veneziano del termine, o un magazzino di granaglie come nelle antiche città medievali tedesche. Sarà destinato ad accogliere le associazioni che conservano la memoria dell’ultimo conflitto mondiale, e oltre; le lotte per la democrazia e la libertà: l’associazione degli ex deportati, Aned, dei partigiani, Anpi, delle vittime del terrorismo, Aiviter, l’Istituto Nazionale di Studi sul Movimento di Liberazione d’Italia.
Perché affidare alle immagini, a delle fotografie rielaborate mediante mattoni colorati, la memoria del passato prossimo? Perché le immagini s’imprimono. Nel 1985 Primo Levi osservava come i reduci dei campi si fossero accorti di quanto poco servissero le parole per descrivere la loro esperienza. Nella società dell’immagine, scriveva nel presentare una mostra di foto del Lager, il pubblico è sempre meno propenso a fruire dell’informazione scritta: «Un’immagine a parità di superficie, racconta venti, cento volte di più della pagina scritta, ed è accessibile a tutti, anche all’illetterato, anche allo straniero, è il miglior esperanto».
Per questo sulle pareti dell’edificio milanese ci sono le fotografie. Di quali immagini si tratta? Il comandante Cino Moscatelli in piazza del Duomo annuncia il 28 aprile la liberazione della città; la foto, opera d’anonimo, è diventata un’immagine sulla facciata Nord. Sul lato opposto, a Sud, lo scatto di Adriano Ferraris ritrae l’interno della Banca dell’Agricoltura dopo l’attentato del 12 dicembre 1969; di fianco la «scala della morte» nella cava di Mauthausen-Gusen, fotografia di Francisco Boix. A Est, la sede del quotidiano Avanti! devastata dai fascisti nel 1924; accanto le operaie in sciopero della Sit Siemes nel 1969 e la manifestazione per la strage di via Fani nel 1978; a ovest, invece, le ragazze del Liceo Donatelli in manifestazione dopo la violenza su una loro nel 1976, foto di Daniele Bonecchi; vicino il dettaglio di uno scatto di Uliano Lucas.
Sotto le grandi foto corrono, come in una decorazione medievale, ritratti di persone anonime tratte da immagini diverse: funerali, comizi sindacali, celebrazioni religiose, contestazioni, cortei, conferenze, luoghi di lavoro. Milano non possiede una memoria condivisa, da «trasferire senza indugio sulla pietra», hanno scritto i progettisti, per cui su questo, che a tutti gli effetti è un monumento, ci sono le immagini di cittadini comuni, la folla anonima, la protagonista, sia attiva che passiva, della storia milanese, e anche italiana, degli ultimi settant’anni. Quella dell’attore-spettatore è dunque l’immagine più presente sulle facciate, a ricordare la frase di Brecht: «Beato il popolo che non ha bisogno di eroi».
Guardando i riquadri delle fotografie si è colpiti dalla volontà d’isolare nelle istantanee visi «qualunque», che nella tassellatura della Casa risultano ancora «illeggibili». Eppure ci sono in alcuni scatti come la ragazzina che spunta dalla baracca in cui abita in via dell’Ortica, fissata dall’occhio neorealista di Federico Padellari, oppure gli emigranti con carri e valigie sotto il treno a Luino di Uliano Lucas, immagine al passato prossimo di un dramma e tragedia ancora attuale.
Se una critica si può muovere alla scelta delle immagini, tutte belle e importanti, è semmai quella del «politically correct», di aver seguito un’inclinazione attualistica. Non la contemporaneità, quanto piuttosto l’attualità, ovvero ciò che è «in atto», che sta accadendo; non ciò che esce dal tempo e lo fissa in un tempo senza tempo. Karl Mannheim in un suo testo degli Anni Venti, Generazione, parla di «non contemporaneità del contemporaneo», un tempo che non è solo quello cronologico segnato dell’esperienza, bensì organizzato polifonicamente in «ogni momento». Contemporanea è quella foto di Patellani, con la casa di legno, il tubo e il viso accattivante, quasi seducente, della giovane, o un’altra di Lucas scattata nello stabilimento dell’Alfa Romeo ad Arese, con l’operaio dentro il cofano che guarda smarrito di lato. La tassellatura con i volti anonimi è quasi incomprensibile nella cornice bassa dell’edificio, che ha pure dei suoi meriti architettonici, ad esempio nell’interno. È una folla anonima che sfuma nella pixellatura policroma, quando lo sforzo della stessa ricerca storica oggi è invece d’uscire dall’anonimato per individuare figure uniche, persino contraddittorie, nelle vicende che abbiamo attraversato. Non c’è più il popolo, e anche l’idea di memoria, come ricorda Levi in I sommersi e i salvati, propone dubbi e incertezze nell’atto stesso del ricordare.