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 2015  aprile 21 Martedì calendario

Nicola Sturgeon, la regina di Scozia. Al referendum lo Scottish Party era al 45%. Ora i sondaggi lo danno al 90. Tutto grazie alla neoleader quarantaquattrenne, dalla messa in piega perfetta che intende approfittare del voto inglese per «renderci più forti». Sarà lei il vero ago della bilancia tra Cameron e Miliband

Con la messa in piega perfetta, il tailleurino rosso diventato la sua uniforme, le scarpe col tacco, difficilmente Nicola (Nicoletta, in inglese) Sturgeon riuscirebbe a scalare la parete da arrampicata indoor alle sue spalle. Ma la metafora è perfetta. “Stronger for Scotland” afferma lo slogan a caratteri cubitali sul palco, e proprio questo promette la leader del partito nazionalista scozzese annunciando in una palestra comunale il suo programma per le elezioni britanniche del 7 maggio: «Con il vostro voto renderemo la Scozia più forte», dice alla giubilante platea di sostenitori, «e per una Scozia più forte ci serve un governo laburista a Londra». Pausa. «Per ora». Guarda il rocciodromo dietro di lei. Non ha bisogno di aggiungere altro. L’arrampicata per rafforzare la Scozia continua. In vetta, prima o poi, ci sarà l’indipendenza.
Fa uno strano effetto tornare a Edimburgo a sei mesi dal referendum. Nell’autunno scorso, a una settimana dal voto, un sondaggio pronosticò la vittoria degli indipendentisti. Il governo di David Cameron, che fino a quel momento aveva sottovalutato il rischio di una secessione della Scozia, promise affannosamente di tutto: in pratica i poteri di uno stato sovrano, tranne la sovranità formale. Gli scozzesi, che sembravano pronti a completare a sette secoli di distanza la ribellione di Braveheart, all’ultimo ci ripensarono. Sicché gli indipendentisti persero, 45 a 55 per cento. Alex Salmond, il loro vecchio leader, pacioccone e furbastro, si dimise assumendosi la responsabilità della sconfitta. Fu sostituito dalla sua vice, “Nicoletta” Sturgeon, 44 anni, seria, non particolarmente carismatica. Sembrava che la questione dell’indipendenza sarebbe stata archiviata per almeno una generazione o due. Oltretutto, dopo il referendum è crollato il prezzo del petrolio, la risorsa naturale che secondo gli indipendentisti avrebbe fatto della Scozia una nuova Norvegia o un emirato del Nord. «Gli è andata bene a non avere scelto l’indipendenza», ironizzava il Times di Londra.
Sei mesi più tardi si arriva in una capitale scozzese imbandierata dai cartelloni elettorali dello Scottish National Party (Snp), il partito nazionalista, ma sarebbe meglio dire indipendentista, scozzese. Ovunque cornamuse, kilt, brindisi nei pub con pinte di Guinness. Aria di festa. Profumo di rivincita. E che rivincita. I sondaggi assegnano allo Snp 50 o più seggi dei 59 in ballo in Scozia: come dire che in sei mesi gli indipendentisti hanno raddoppiato i consensi, dal 45 per cento del referendum di settembre al 90 per cento circa che gli viene ora attribuito. La crescita è ancora più clamorosa rispetto alle elezioni di cinque anni fa, quando conquistarono appena 6 seggi. Allora il maggiore partito in Scozia era il Labour. Ora si prevede che i laburisti vinceranno a malapena mezza dozzina di seggi.
Che cosa è successo per cambiare così tanto in così breve tempo? Una ragione è che Cameron, passato lo spavento di passare alla storia come colui che ha disunito la Gran Bretagna, non si è più occupato di realizzare le promesse fatte al governo autonomo di Edimburgo. «Noi lo sapevamo», commenta l’ex-leader Salmond, in procinto di andare a piantare la bandiera scozzese dentro al parlamento di Westminster come deputato alla testa dei suoi. «Perciò non ci siamo disperati troppo per la sconfitta nel referendum. Sapevamo che Londra aveva prevalso con false promesse e false minacce e che la verità sarebbe presto venuta a galla». Un secondo fattore è la crescente antipatia per il partito laburista e per il suo leader, Ed Miliband. Nella campagna referendaria, Miliband si è schierato con Cameron per convincere gli scozzesi a desistere dal sogno indipendentista. Molti scozzesi lo hanno visto come un complice del leader conservatore. E il fatto che dica di voler spostare il Labour a sinistra rispetto agli anni di Blair appare comunque insufficiente ai seguaci dello Snp, che è su posizioni molto più a sinistra di quelle laburiste. Un terzo motivo è l’orgoglio. Se nel referendum tanti scozzesi hanno fatto vincere le ragioni del cervello su quelle del cuore, non lo hanno fatto volentieri. Chi in settembre ha votato contro l’indipendenza non lo ha sbandierato in piazza. Ha avuto sei mesi per pentirsene. E il calo del petrolio? Non giustifica chi temeva l’indipendenza? «Non abbiamo soltanto il petrolio», risponde “Nicoletta” Sturgeon. «La Scozia è ricca anche grazie a pesca, whisky, pecore, turismo, high-tech, e in più ha pure il petrolio, il cui prezzo potrebbe comunque risalire». Se provi a lanciare la stessa domanda in un pub, ti risponde un coro: «Che si fotta il petrolio, vogliamo l’indipendenza perché siamo diversi dagli inglesi, perché siamo per una società più giusta, perché lo impone la storia». Testardi e coraggiosi, gli scozzesi: guai a chiedergli se hanno paura.
Per di più, come la loro leader ripete facendo l’occhiolino, «in questo voto» non è in gioco l’indipendenza (domani, in un altro voto, sottintende, si vedrà). Cos’è in gioco, allora? «Una Scozia più forte», risponde. E spiega che servono due cose per rafforzarla. Una è cacciare da Downing street i conservatori e la loro politica di austerity. L’altra è appoggiare un governo laburista diventandone l’ago della bilancia, per vigilare che il Labour faccia una politica favorevole alla Scozia e di conseguenza una genuina politica di sinistra. Senza i voti dello Snp, concordano i commentatori, Miliband non potrà governare. Ma la destra, se il Labour governasse con i voti dello Snp, lo accuserebbe di tradimento, di «cedere ai ricatti» della Scozia: l’Inghilterra che affida il suo destino ai discendenti di Braveheart. Così Miliband per il momento dice che non farà alleanze con gli scozzesi, ma non esclude di accettare il loro appoggio dall’esterno, senza bisogno di dargli neanche un ministro.
Il puzzle delle “elezioni impossibili”, in cui nessuno è in grado di vincere da solo, come apparivano fino a due mesi fa, lascia dunque intravedere una soluzione. Né Labour, né Tory avranno la maggioranza assoluta (i laburisti però sperano di avere la maggioranza relativa, diventando il primo partito). Ma mentre i Tory non hanno abbastanza alleati per formare una coalizione di maggioranza, il Labour ce li ha: Snp, Verdi, Gallesi e magari anche i liberaldemocratici, attuali partner dei conservatori nel governo uscente. Il merito di questa complessa matematica elettorale è in parte del sistema maggioritario uninominale britannico: con il 4 per cento dei voti, concentrati in Scozia, lo Snp può ottenere una cinquantina di deputati e diventare il terzo partito nazionale; mentre i populisti antieuropei dell’Ukip, con il 13 per cento che gli assegnano i sondaggi ma distribuito su tutto il territorio nazionale, rischiano di vincere appena un paio di seggi o anche nessuno. In non piccola parte, tuttavia, il merito è pure di “Nicoletta” Sturgeon, che ha stravinto i dibattiti televisivi e si è rivelata un leader migliore del suo predecessore. Ormai è un mito, non solo in Scozia: «Ho la posta elettronica piena di messaggi di elettori che vorrebbero votare per me in Inghilterra», confida. La sinistra britannica ha finalmente trovato la sua star. E Braveheart ha trovato un erede. La gonna, del resto, la indossava anche lui. Perlomeno nel film.