la Repubblica, 21 aprile 2015
La storia di Aeham Ahmad, il pianista che sfida lo Stato Islamico suonando sui tetti in rovina di Yarmouk
Chissà per quanto tempo potrà ancora suonare il palestinese Aeham Ahmad, il pianista che sfida l’Is suonando musica sui tetti in rovina di Yarmouk, il grande campo profughi in macerie. Chissà se gli taglieranno le mani o la testa quando lo prenderanno, quei soldatini blasfemi. Chissà se sa, Aeham, che grazie al web mezzo mondo lo vede e lo sente suonare su quei tetti bucati, prima soltanto poveri, ora anche morti. Chissà se è tutto vero, o solo per un pezzo, il suo racconto, comunque perfetto per dire, senza bisogno di parole, che la musica è incoercibile, leggera, è impossibile ucciderla, distruggete un pianoforte e basterà una pianola, distruggete la pianola e basterà un piffero, distruggete il piffero e suonerà la voce umana, modulata secondo le note che sono, come si sa, matematica pura, e dunque sono l’Ordine, chissà se di Dio o di altri fattori.
Proibire la musica significa proibire una delle poche vere forme del divino alla nostra portata. Non c’è dogma, non c’è verbo, non c’è libro che possa anche lontanamente lambire lo spirito quanto è capace di fare la musica. Di religioso, a Yarmouk, c’è rimasta la musica di Aeham, le sue mani sulla tastiera, la sua voce che modula qualche nota di accompagnamento. Non c’è altro di davvero religioso, in quella guerra sedicente di religione, niente altro.