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 2015  aprile 21 Martedì calendario

Nell’obitorio dei migranti esistono anche i morti fortunati, quelli che hanno nome e cognome. Per gli altri resta solo un numero, a meno che i parenti non abbiano la forza di andare fino a lì per chiedere il confronto del Dna

Ci sono morti più fortunati di altri, in questa storia. Fortunati, sì. Perché almeno hanno ancora una speranza di essere qualcuno, dopo che il Mediterraneo li ha uccisi e ha cancellato la loro identità. Qualcuno con un nome e un cognome, una famiglia da qualche parte nel mondo, una faccia su una tomba. E quella speranza ce l’hanno legata al polso. “Corpo numero 113”, c’è scritto sul braccialetto bianco di questa salma, che i medici dell’obitorio dell’ospedale “Mater Dei” di Malta stanno trasportando su un carrello per l’ispezione esterna. Lo stesso numero è sull’etichetta adesiva incollata al sacco in cui è avvolto il cadavere. Quel numero è tutto quello che gli resta. Sarà associato a una fialetta di sangue, che verrà prelevata nelle prossime ore per fare i confronti del dna con i familiari che avranno la forza di venire fino qui a cercare i fratelli e i figli che non hanno più. Non deve ripetersi un’altra Lampedusa, la strage degli sconosciuti rimasti tali.
Sono arrivati 24 cadaveri, ieri mattina. La nave italiana Gregoretti li ha trasportati dal luogo del naufragio fino al porto di Isla, a La Valletta. Erano dentro sacchi neri, sistemati uno accanto all’altro in un angolo del ponte. Pochi metri più in là c’erano i 28 superstiti. Seduti per terra, hanno visto tutto. In silenzio. Hanno visto i loro compagni di viaggio mentre venivano adagiati sulla banchina, li hanno visti avvolgere in un altro sacco, questa volta di colore bianco. Li hanno visti, per l’ultima volta, mentre i carri funebri li portavano via dentro bare provvisorie di metallo zincato.
Sono le vittime del barcone che si è rovesciato, le poche che i soccorritori hanno strappato agli abissi. Tutte le altre sono in fondo al Canale di Sicilia, a centinaia di metri di profondità. Chissà quante persone ci sono veramente laggiù, statue di sale che nessuno andrà mai a recuperare. Destinate all’oblio più profondo.
«Corpo numero 113», dice ad alta voce David Grima, il responsabile della camera morturaria, un edificio squadrato di mattoni gialli. David è imbalsamato in due strati di tuta protettiva di nylon, ha una maschera alla bocca, la testa e le scarpe coperti da quelli che sembrano sacchetti di plastica. Gira attorno al carrello su cui è adagiato un uomo. «Maschio, adulto, età compresa probabilmente tra i 20 e i 30 anni», scrive. «Occhi neri, capelli neri, barba nera e corta. Colore della pelle: nera. Tatuaggi: nessuno. Segni particolari: nessuno. Documenti: nessuno. Vestito con pantaloni neri e camicia rossa, senza scarpe. Probabilmente, subsahariano». Non si va oltre a questo. «Probabilmente subsahariano» è tutto quello che si riesce a dire di quest’uomo morto. Il corpo è in buone condizioni, non è gonfio d’acqua. Ma la faccia è rugosa, quasi espressiva. «Come se stesse dormendo e avesse un incubo», commenta Tessie, una delle addette alla pulizia dell’obitorio. L’ispezione esterna dura venti minuti in tutto, poi il cadavere viene riportato nella “fridge room”, una stanza fredda (10 gradi al massimo) di una quarantina di metri quadrati, con tre finestre, una luce bluastra, tre file di cassetti frigo da cui appaiono e scompaiono, su lettini scorrevoli, i sacchi con i cadaveri. La Morturary dell’ospedale ne può ospitare 65. Per adesso ne sono stati occupati 44 e 24 sono i naufraghi senza nome del peschereccio.
Cominciano a ispezionarli alle 13.05. Attorno a ogni corpo lavorano sei medici: David Grima, che coordina le operazioni, poi l’ematologo, il “dissezionatore”, gli assistenti. La procedura è sempre uguale, meccanica, asettica. In due aprono la cella frigo e sollevano il sacco. Lo mettono sul carrello, lo spingono per una trentina di metri lungo il corridoio fino alla stanza delle autopsie. Quelle saranno eseguite dopo che il magistrato maltese avrà dato l’autorizzazione. Per ora si procede solo alla analisi sommaria: ogni cadavere va numerato, descritto, schedato. «Corpo numero 114: maschio, adulto, età compresa probabilmente tra 22 e 28 anni. Tatuaggi: nessuno. Documenti: una foto nella tasca dei pantaloni». Chi è quella donna nella foto? Forse una fidanzata, forse la mamma che ha lasciato in Eritrea, o in Somalia, o in Nigeria. «Probabilmente subsahariano». Non si sa niente di questi disperati. Vengono chiamati ora migranti, ora profughi, ora clandestini. Ma che storia abbiano, nessuno lo sa.
I 24 del naufragio sono tutti uomini. Non ci sono donne. Tutti hanno ancora i vestiti addosso. «Sono giovani – dice Tessie – non credo ci sia qualcuno con più di trent’anni». Dal frigo spunta un sacco meno gonfio, dentro c’è un ragazzo. Non un bambino, avrà 16-17 anni. «Nero. Segni particolari: nessuno. Probabilmente adolescente», recita la sua scheda. Forse è quello che è stato trovato dai soccorritori con la faccia riversa nella nafta.
Le ispezioni durano fino alle 18 di sera. «Corpo numero 124...», «Corpo numero 125...», non c’è tregua. Fuori, nella cappella accanto all’obitorio, i maltesi hanno portato per solidarietà 13 mazzi di fiori, così come aveva chiesto il direttore dell’ospedale. «Per i non identificati – recita un biglietto, firmato Mizzie il Kalkhara – possiate vivere per sempre in paradiso». Le schede sono tutte compilate, i cadaveri rimessi nelle celle frigo. I medici hanno trovato pezzi di carta macerati con delle scritte sopra e delle piccole foto. «Ma non ci dicono niente sull’identità di chi li aveva in tasca o negli indumenti». Dopo l’autopsia i migranti potranno ricevere una cerimonia funebre a rito congiunto, che sarà celebrata da un imam e dal vescovo di Malta. Poi saranno seppelliti nel cimitero comunale Dell’Addolorata. Di loro rimarrà una scheda e una fialetta di sangue. E una tomba con un numero, che prima o poi, forse, diventerà un nome e un cognome.