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 2015  aprile 21 Martedì calendario

Dalla lampadina alla tv la vita media degli elettrodomestici si è dimezzata e ripararli costa più che sostituirli ma almeno ora si pensa a come rigenerarli. Intanto la Francia punisce l’obsolecenza programmata con due anni di reclusione

La civiltà dell’usa e getta presenta il conto. Mentre la tecnologia alza ogni giorno l’asticella dei suoi progressi, creando nuovi prodotti e nuovi bisogni, ci ritroviamo con apparecchi elettronici che durano meno. Anzi: nascono per durare meno. In Germania hanno fatto scandalo i risultati di una ricerca dell’università di Amburgo, dove si dimostra che il 60 per cento dei televisori sostituiti dai consumatori tedeschi è ancora perfettamente funzionante, e intanto la vita media di una tv nell’ultimo decennio è passata da 9 a 5,6 anni. Quasi la metà. Stesso discorso per i computer, che perdono il 10 per cento della loro longevità ogni sette anni. E per lavatrici, aspirapolvere, lavastoviglie. O per gli iPhone che si producono con la seguente sincronia: ogni nuovo modello ha un ciclo esistenziale più corto del precedente. Gli oggetti simbolo del consumismo, insomma, sono sempre più sofisticati e attraenti nelle prestazioni, ma devono avere una vita più breve. Per essere sostituiti.
IL PARADOSSO
In gergo si chiama obsolescenza programmata, e non è un trucco, quanto una leva per spingere verso l’alto la curva degli acquisti, ben oltre le nostre necessità. Sta qui, in questo apparente paradosso di un progresso che rende ogni oggetto più vulnerabile, un ingranaggio essenziale del motore manipolato del capitalismo compulsivo, quello entrato in corto circuito con la Grande Crisi. In Francia, tra il 1990 e il 2008, l’anno di inizio di una interminabile recessione, gli acquisti di apparecchi elettronici sono aumentati di sei volte, allo stesso tempo le spese per le riparazioni sono diminuite del 40 per cento, e il 44 per cento degli elettrodomestici dei francesi finiscono nelle discariche. Meno manutenzione, più consumo: ecco l’equazione della civiltà usa e getta.
Dove i conti non tornano, se li guardiamo dal punto di vista del budget dei consumatori, al punto che proprio in Francia è stata approvata una legge molto severa nei confronti dell’obsolescenza programmata. Laddove viene dimostrato che un apparecchio è studiato per accorciare “intenzionalmente” la sua vita, i responsabili sono punti con una multa fino a 300mila euro e con pene detentive fino a 2 anni di carcere. Una proposta simile giace anche nei cassetti del Parlamento italiano, ed è stata presentata dal deputato di Sel, Luigi Acquanti, che chiede sanzioni e garanzie degli elettrodomestici non inferiori ai dieci anni.
IL MECCANISMO
Ma non sarà certo una legge, per quanto severa, a smontare un meccanismo che ha orientato per decenni un modello di crescita economica. Negli Stati Uniti fece scalpore il caso delle lampadine. Fino alla crisi del 1929 duravano, mediamente, 2.500 ore; poi, al momento di rilanciare l’economia che in America significa innanzitutto consumi di massa, le grandi aziende produttrici si misero d’accordo per accorciare la vita delle lampadine e portarla a non più di 1.000 ore. L’obsolescenza serviva, ieri come oggi, a non abbassare la domanda di acquisti. Adesso che la Grande Crisi sta modificando in modo radicale i nostri stili di vita, ci si chiede però se il sistema di ridurre la durata di un elettrodomestico sia ancora il più efficiente, per il mercato, per i produttori e per i consumatori. La risposta è no, non conviene a nessuno. Innanzitutto non attira gli stessi consumatori: in Italia, fino al 2008 soltanto il 60 per cento di loro pensava di riparare un apparecchio elettrico o elettronico, ora siamo all’85 per cento.
Non siamo disposti a subire in modo passivo, con le mani alzate in segno di resa, il diktat del negoziante che, di fronte a un piccolo ingranaggio fuori uso, ci diceva con tono perentorio: «Le conviene comprarlo nuovo». Vogliamo assistenza, qualità e la possibilità di riparare, senza la schiavitù dell’acquisto coatto che spesso si traduce in spreco. Nelle nostre case, per ciascuna famiglia, ci sono nascosti in qualche armadio, in un cassetto, in una cantina, otto elettrodomestici ancora funzionanti e non utilizzati. In secondo luogo, la civiltà dell’usa e getta è diventata orizzontale, piatta. Genera poco lavoro e induce perfino a un basso livello di innovazione. L’economia circolare, dove gli oggetti al centro del consumo hanno una vita più lunga e talvolta perfino doppia, invece crea nuove opportunità a partire proprio dalla riscrittura dei paradigmi. Alla voce manutenzione, lo dicono tutte le ricerche sul mercato del lavoro, corrisponde una nuova domanda di manodopera. Dunque, riparare un elettrodomestico non è solo un risparmio per il proprietario, ma anche una fonte di reddito e di occupazione per chi riesce a sfruttarla.
LA FRONTIERA
E siamo arrivati al punto che sono le stesse aziende, un tempo prigioniere dell’obsolescenza programmata, a prendere in considerazione il riciclo e la rinascita degli apparecchi. Al Politecnico di Milano, grazie a un investimento del Cnr e di gruppi industriali come Candy e Magnete Marelli, è stata realizzata una fabbrica dell’economia circolare, un vero prototipo del futuro, dove lavorano 25 persone. Ciascun elettrodomestico viene smontato e frazionato, prima di decidere che cosa farne. E le possibilità sono due: l’apparecchio si rigenera, e torna ad essere venduto come nuovo, oppure se ne recuperano tutte le preziose materie prime, oro compreso. Infine, l’economia circolare contiene un effetto indotto a proposito di riduzione: consente di tagliare i rifiuti elettronici, oggi pari a venti chilogrammi a testa. Meno spazzatura e più riciclo: il nuovo modello di sviluppo, che tanto lambicca il cervello degli economista di tutto il mondo, passa anche da qui.