Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  aprile 21 Martedì calendario

«La maggioranza del gruppo sta con me e non possiamo dare l’immagine di un’armata Brancaleone». Con queste parole Renzi ha fatto fuori i dieci dissidenti del Pd dalla commissione Affari costituzionali che oggi pomeriggio inizierà a votare l’Italicum. «Così il governo è a rischio», dicono i ribelli. Intanto la fiducia in Aula sembra sempre più inevitabile

la Repubblica

Il dado è tratto, la questione di fiducia sarà messa sull’Italicum. Conferme ufficiali da palazzo Chigi non arrivano, ma l’indeterminatezza di Renzi – «vediamo, lo vedremo al momento della discussione parlamentare» – in realtà maschera una decisione già presa. E la mossa di ieri, la sostituzione dei dieci ribelli dem, è proprio funzionale al passaggio successivo: la fiducia sul testo che uscirà dalla Commissione affari costituzionali. «La maggioranza del gruppo sta con me – ricorda il capo del governo –  e non possiamo dare l’immagine di un’armata Brancaleone. In commissione i deputati ci stanno per rappresentare le posizioni del gruppo».
Quanto alla fiducia e alla sua “inevitabilità, uno degli strateghi renziani la spiega così: «Se in commissione l’Italicum dovesse cambiare, e sicuramente sarebbe cambiato se non avessimo sostituito quelli della minoranza, il governo sarebbe stato costretto a una forzatura ancora più grande: mettere la fiducia su un maxiemendamento sostitutivo del testo della Commissione per tornare alla versione originale dell’Italicum. Una cosa oggettivamente al limite». Così invece, paradossalmente, lo strappo sarà “esteticamente” meno lacerante. Il governo metterà la fiducia sui quattro articoli della legge elettorale che usciranno dalla commissione a fine aprile. Garantendosi una via d’uscita indolore dalla valanga di voti segreti che già si preannunciavano. Che la strada sia questa traspare anche dalle parole del premier ieri mattina sullo «sprint finale» da correre «sui pedali, a testa alta». Una frase che il segretario del Pd, con i suoi, traduce in questo modo: «Il tempo delle mediazioni è finito, ora è il tempo di decidere».
Certo, il prezzo da pagare sarà un mese di polemiche di fuoco. Un antipasto di quello che accadrà lo si è visto ieri, con le opposizioni – e persino Scelta Civica, partito di maggioranza – a un passo da un nuovo Aventino parlamentare. Persino il grillino Danilo Toninelli ieri in un corridoio di Montecitorio tuonava contro le «epurazioni» del Pd: «Ci venissero ancora a criticare per quelli che abbiamo cacciato noi! Che poi abbiamo fatto anche bene, visto dove sono andati a finire. Ora presenteremo in aula solo una ventina di emendamenti, il minimo, per non dare pretesti a Renzi di mettere la fiducia contro un presunto ostruzionismo». Tra i deputati della minoranza dem si oscilla invece tra la rabbia e un senso di rassegnata ineluttabilità. «Non capisco questa drammatizzazione al diapason osserva Alfredo D’Attorre, uno dei sostituiti – perché noi, riservatamente, avevamo dato la nostra disponibilità alle dimissioni volontarie dalla commissione se ci avessero garantito un dibattito libero in aula. Non ci hanno nemmeno risposto. Evidentemente, si stanno preparando alla fiducia».
La risposta delle minoranze interne resta tuttavia sfrangiata, una posizione unitaria non c’è e forse non ci sarà. I bersania- ni di Area riformista si vedranno domani per capire cosa fare in aula, quali emendamenti presentare. Ma lo stesso D’Attorre accoglie quasi con fastidio la convocazione del vertice: «Tutte ‘ste riunioni a che servono? Io non rispondo al partito figuriamoci se rispondo a una corrente. Ognuno di noi ha gli strumenti per valutare quello che fa. I miei emendamenti io li firmo D’Attorre, ognuno si firmi i suoi». Del resto è proprio sulla pluralità delle posizioni della minoranza che conta il premier per «portare a casa il risultato». Convinto che, alla fine, «saranno al massimo una ventina quelli che voteranno contro l’Italicum con il voto segreto». Perché un voto segreto, uno soltanto, ci sarà comunque: anche mettendo la fiducia il voto finale sarà infatti coperto. «Ma tutti devono sapere ripete Renzi in queste ore – che se l’Italicum cade io vado a casa. E loro con me. Quanti si prenderanno questa responsabilità?». Dario Ginefra, area riformista, sembra già guardare al passaggio della riforma costituzionale in Senato, dando per scontato un sì all’Italicum senza modifiche: «Ora dobbiamo evitare di sclerotizzare il confronto anche perché offriamo l’alibi a chi, dalla parte della maggioranza, lavora per l’emarginazione della minoranza e per l’interruzione di un dialogo possibile nel prosieguo della riforma costituzionale del Senato». Una posizione soft simile a quella di Cesare Damiano, altro bersaniano poco convinto dello scontro all’ultimo sangue: «Il governo non metta la fiducia sull’Italicum e consenta un normale iter al dibattito parlamentare. Se questo avverrà è evidente che alla fine del confronto, quale che sia l’esito, la legge elettorale andrà votata». Insomma, la posizione prevalente – a parte Civati, Fassina e pochi altri irriducibili – sembra essere quella di lanciare una battaglia di testimonianza in aula senza tuttavia mettere a repentaglio la maggioranza. «Non chiederemo voti segreti – annuncia Andrea Giorgis, un bersaniano sostituito ieri in Commissione – lo posso mettere per iscritto. E anche se qualcuno li chiederà, noi non faremo scherzi. Quello che voteremo lo diremo in pubblico».
Francesco Bei

*****

Corriere della Sera

Rimossi. Cacciati. Disarmati. O, come suggerisce un membro della commissione Affari costituzionali di fresco sollevato dall’incarico, «epurati». Alle otto e trenta della sera Ettore Rosato — il vicario che fa le funzioni del presidente da quando Speranza ha rimesso il mandato — formalizza lo strappo. E i «dieci piccoli gufi» della minoranza del Pd, come qualcuno li ha ribattezzati alla Camera facendo il verso al capolavoro di Agatha Christie, reagiscono con diverse sfumature di (contenuta) rabbia.
Pier Luigi Bersani è nero e, parlando con i deputati amici, definisce la sostituzione dei dissidenti dell’Italicum «un fatto grave». E chissà cosa ha pensato l’ex segretario della Festa nazionale dell’Unità, che si terrà a Bologna dal 21 aprile al 3 maggio. Nel programma il suo nome non c’è, come non ci sono quelli di Cuperlo, Civati, Speranza...
Alfredo D’Attorre aspetta che la notizia sia ufficiale, poi spara: «Scelta politicamente grave, che mortifica il Parlamento a la dignità dei singoli deputati». Se altri esponenti della minoranza avevano annunciato di essere pronti a lasciare il posto, il bersaniano intransigente ha resistito fino all’ultimo con lo slogan «Io non mi dimetto, devono cacciarmi». A cose fatte, D’Attorre giudica «la sostituzione di metà gruppo un fatto che non ha precedenti» e vuole sia messo a verbale che «volevamo restare in commissione a fare il nostro dovere».
Rosy Bindi riconosce che l’avvicendamento con renziani purosangue è a norma di regolamento e ha persino voglia di scherzare su una commissione «ad alta concentrazione di gufi». Ma la presidente dell’Antimafia non condivide i metodi di Matteo Renzi: «Dieci deputati è una sostituzione di massa. Un fatto che si commenta da solo. Ma da Renzi la gente non si aspetta altre dimostrazioni di forza. Mettere la fiducia sarebbe un atto assurdo, grave e inutile, perché dopo c’è comunque il voto segreto sul provvedimento finale». Ma c’è anche chi si dice «assolutamente sereno». Il lettiano Marco Meloni lascia la commissione con filosofia: «Non è un attentato alla democrazia o alla costituzione, è una cosa normale. I parlamentari in commissione rappresentano il gruppo e quando non si condivide un provvedimento ci si toglie reciprocamente dall’imbarazzo». Toni istituzionali anche dall’ex ministro Barbara Pollastrini: «Mi spiace. Gli strappi fanno male a tutti. Rispetto la decisione assunta».
E mentre Renzi si allena per lo sprint finale «sui pedali e a testa alta», i dissidenti cercano un bastoncino da infilare tra i raggi delle ruote. «Voterò i miei emendamenti», è il mantra di D’Attorre. Gianni Cuperlo teme che Renzi metta in pericolo il governo: «La fiducia sarebbe uno strappo grave, il rischio è di instradare la legislatura su un binario a fondo cieco». E la sostituzione in commissione? «È un fatto molto serio, credo che non ci siano precedenti».
Cuperlo insiste sul tasto «il Parlamento è sovrano» e ricorda che i dieci licenziati erano al lavoro per migliorare la legge. Un punto sui cui insiste Rosy Bindi: «Il governo non dovrebbe metterci la testa sopra, dovrebbe lasciare il libero confronto in Parlamento». Il governo è a rischio? «Spero ancora nella saggezza del premier».
Sentimenti contrastanti animano i ribelli, in conflitto tra fedeltà alla «ditta» e fedeltà alle proprie idee. Il giovane Enzo Lattuca si dice «sorpreso» perché il 27 gennaio 2014 Renzi impose alla minoranza di ritirare gli emendamenti in commissione e anche al Senato l’Italicum fu portato direttamente in aula: «Evidentemente il governo ritiene che l’esame delle commissioni non sia utile a migliorare la legge». L’altra cosa che lo ha sorpreso è stata la formula con cui i vertici del gruppo gli hanno chiesto di lasciare: «”Hai delle preferenze su chi dovrà sostituirti?”. Mi hanno detto proprio così». E lei, onorevole? «Ho risposto che avrei preferito restare».
Monica Guerzoni