Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2015
La Libia è un caso disperato che mette in pericolo l’Italia. Questa è la priorità nell’agenda di Renzi nel suo incontro di oggi con Obama. L’Italia paga non soltanto i suoi errori – che furono quelli di non opporsi all’avventura libica come ha dichiarato il ministro degli Esteri Gentiloni – ma anche e soprattutto quelli compiuti dalla superpotenza americana nell’arco di oltre un decennio
L’intervento anglo-francese in Libia nel 2011, avallato dagli americani con i raid aerei, è stato un disastro persino più insanabile dell’Iraq perché questo Paese, un tempo in pugno al dittatore Gheddafi, non ha più neppure una capitale. Il rimedio si è dimostrato peggiore del male e ha ridotto il Paese in frantumi.
Non soltanto la Libia non è diventata una democrazia ma oggi è uno stato fallito, fuori controllo, in molte zone in mano ai terroristi, dove sono penetrate le milizie del Califfato e quelle di Al Qaeda che insieme ai trafficanti di essere umani hanno fatto della sponda Sud una Tortuga fuori controllo: la Libia è un caso disperato che mette in pericolo l’Italia.
Questa è la priorità nell’agenda del presidente del Consiglio Matteo Renzi nel suo incontro di oggi con Barack Obama. Dagli Stati Uniti che usano le basi Nato in Italia nella lotta al Califfato – contrariamente a quanto avviene in Turchia che le ha negate – ci si aspetta una risposta più concreta di quella che ci hanno già dato.
Finora Washington si è dichiarata vagamente disposta a dare aiuto economico, armi, assistenza politica e di intelligence ma non a mettere piede in Libia. Le ragioni le sappiamo: gli americani sono impegnati in Iraq dove l’Isil invece di arretrare sta per conquistare Ramadi, mezzo milione di abitanti, capitale della provincia sunnita di Al Anbar. Era da qui che il generale Petraeus era partito nel 2007 per la “surge”, la controffensiva anti-terrorismo con l’aiuto delle milizie locali sunnite. Il bilancio qualche anno dopo non è davvero confortante.
L’Italia paga non soltanto i suoi errori – che furono quelli di non opporsi all’avventura libica come ha dichiarato il ministro degli Esteri Gentiloni – ma anche e soprattutto quelli compiuti dalla superpotenza americana nell’arco di oltre un decennio. Oggi gli Usa cercano di recuperare attraverso un accordo, ancora precario, con l’Iran sciita per controbilanciare i poco affidabili alleati sunniti ma questa nuova realpolitik, che giostra pericolosamente sulle rivalità settarie, assicura qualche equilibrio temporaneo ma è assai lontana anche da una stabilità fragile e provvisoria.
L’Italia è diventata parte – ma lo era già sotto il profilo delle forniture energetiche – di un sistema Medio Oriente-Nordafrica al collasso: dobbiamo sopportarne i costi politici, economici e di sicurezza, non troppo diversamente dagli stati confinanti con la Siria e l’Iraq, due nazioni fallite nel cuore della Mesopotamia che oltre a centinaia di migliaia di morti hanno generato alcuni milioni di profughi, i quali soltanto in parte torneranno, forse tra molti anni, nella loro patria ormai distrutta.
L’Unione europea – ma speriamo di essere smentiti a breve– stenta a prendere atto che uno stato membro e fondatore rischia di essere risucchiato nel gorgo mediorientale e nordafricano. Questo gli americani lo sanno benissimo: sul Washington Post l’ammiraglio James Stavridis, comandante Nato nella campagna aerea di Libia, ha pubblicato in marzo un articolo sulla minaccia che l’Isis rappresenta per l’Italia risfoderando una battuta di Churchill che nel ’42 ci definì, annunciando l’operazione in Nordafrica, «the soft underbelly of Europe», il ventre molle d’Europa.
Ci siamo resi conto perfettamente che la crisi libica non riveste per tutti la stessa importanza e non è valutata allo stesso modo anche dai nostri sedicenti alleati. I colloqui di pace condotti dall’inviato speciale dell’Onu Bernardino Leòn non sono appoggiati come si dovrebbe. Prima di avviare la mediazione era necessario riunire tutte le potenze in campo per chiarire idee e agende contrastanti. Il governo di Tobruk, sostenuto a piene mani dagli egiziani, non appare così interessato a firmare accordi con gli islamisti di Tripoli: il suo obiettivo è quello di vincere la partita militarmente, trascurando per il momento persino il Califfato.
Dall’amico americano, al quale abbiamo mostrato una tetragona fedeltà seguendolo in avventure sanguinose come l’Afghanistan e l’Iraq, l’Italia si aspetta qualche cosa di più che un impegno di facciata. Certo molto dipende dalla nostra determinazione, giusto per non dimostrare che hanno ancora ragione a definirci ventre molle d’Europa.