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 2015  aprile 17 Venerdì calendario

Sperare che il default della Grecia o la sua uscita dall’euro non abbiano impatto sui mercati e sugli altri Paesi dell’Unione monetaria è come pretendere che una bomba non faccia danni esplodendo. La vera domanda che bisogna porsi è, semmai, se l’eventuale contagio in Europa possa essere gestibile e temporaneo

Sperare che il default della Grecia o la sua uscita dall’euro non abbiano impatto sui mercati e sugli altri Paesi dell’Unione monetaria è come pretendere che una bomba non faccia danni esplodendo. E neppure rumore. Il solo allargamento dello spread tra BTp e Bund di ieri, con il titolo tedesco a nuovi minimi storici, lo dimostra: anche mercati anestetizzati dalla grande liquidità della Bce non sono immuni. La vera domanda che bisogna porsi è, semmai, se l’eventuale contagio in Europa possa essere gestibile e temporaneo, oppure se non sia in grado di minare le fondamenta dell’Unione europea e dei mercati finanziari.
Sebbene nessuno abbia una risposta certa a questa domanda, è probabile che la realtà possa stare nel mezzo tra le due ipotesi: da un lato oggi l’Europa (grazie agli interventi della Bce) è molto più solida e capace di resistere all’onda d’urto rispetto al 2011-2012, dall’altro l’ipotesi Grexit o di un default di Atene difficilmente provocherebbe solo momentanee turbolenze. Anche perché romperebbe il tabù, su cui si basa l’Unione monetaria, dell’irrevocabilità.
In parole povere: oggi l’impatto sarebbe probabilmente più contenuto di quello che si temeva nel 2012, ma non così contenuto da consentire al mondo politico di sottovalutare il problema. I canali di contagio della crisi greca, sui mercati finanziari e sui vari Paesi dell’Unione europea, possono essere infatti tre: le banche, gli Stati e la politica. E tutti e tre presentano non poche insidie, del tutto imprevedibili oggi.
Partiamo dalle banche. L’aspetto che più rasserena, su questo fronte, è che ormai gli istituti creditizi europei hanno un’esposizione minima sulla Grecia: se nel 2008 le banche europee erano esposte su Atene per circa 200 miliardi di dollari (dati Bri) e all’inizio del 2012 per 62,6 miliardi, ora hanno in Grecia appena 18,6 miliardi. Le banche italiane hanno un’esposizione verso la Grecia di appena 1,22 miliardi (dai 6,86 del 2009): nulla di problematico. Questo fa infatti scrivere a Fitch che «l’impatto sulle banche non greche sarebbe limitato», e a Standard & Poor’s che gli istituti «hanno meno da temere in caso di Grexit».
Purtroppo, però, questa è solo una parte della storia. In caso di Grexit ci può infatti essere un altro canale di contagio – potenzialmente distruttivo – per le banche: la possibile fuga di depositi dagli istituti dei Paesi deboli. Italia inclusa. «Il rischio esiste – scrive Goldman Sachs in uno studio recente – e neppure una garanzia europea sui depositi potrebbe eliminarlo». Il motivo per cui si può oggi temere per una fuga di depositi è ovvio: se la Grecia uscisse dall’euro e trovasse un modo tecnico-legale per farlo, a quel punto la porta si aprirebbe in via teorica anche per altri Stati. Insomma: l’euro diventerebbe, strutturalmente, revocabile. In questo caso, per le aziende o le persone fisiche che hanno depositi nella banca di un Paese “debole” non avrebbe più molto senso tenere i propri soldi fermi: qualora il Paese uscisse dall’euro, infatti, i loro depositi si svaluterebbero insieme alla nuova “lira” o alla nuova “pesetas”. Avrebbe invece più senso mettere i risparmi in una banca tedesca, dato che l’eventuale futuribile nuovo “marco” regalerebbe ai depositanti un forte apprezzamento. La fuga dei depositi potrebbe dunque colpire le banche dei Paesi deboli per un solo motivo di carattere valutario. Bene inteso, questo non significa che accadrà di certo: si tratta di reazioni che molto hanno a che fare con la psicologia delle masse e con le eventuali rassicurazioni politiche. Per cui imprevedibili. Ma il rischio teorico c’è.
Per i Paesi e i Governi dell’area euro il contagio greco potrebbe – sempre in via teorica – arrivare da tre canali: quello finanziario, quello contabile e quello politico. Sul primo fronte il rischio oggi è molto più limitato rispetto a qualche anno fa: con la Bce che stampa denaro comprando titoli di Stato e con lo scudo (mai usato ma sempre pronto) dell’Omt, difficilmente gli spread potranno risalire come accadde tra il 2011 e il 2012. In casi estremi – scrive Goldman Sachs – «la Bce potrebbe agire anche come prestatore di ultima istanza». Qualche turbolenza ci potrebbe essere, certo, ma probabilmente non distruttiva come sperimentato in passato. È per questo che il mercato non ha quotazioni “da panico”, sebbene il movimento di ieri dimostri crescente nervosismo.
Il problema è che gli Stati europei hanno erogato grandi prestiti alla Grecia, che in caso di default difficilmente tornerebbero indietro: complessivamente l’esposizione degli Stati europei, diretta e indiretta attraverso il fondo salvastati, ammonta a 194,7 miliardi di euro, pari al 2% del Pil dell’eurozona. L’Italia ha prestato ad Atene 40,8 miliardi di euro: non bruscolini per un Paese che considera un “tesoretto” 1,6 miliardi virtuali. Un default della Grecia – scrive Fitch – non avrebbe un impatto sul debito degli altri Stati, ma solo sul lato dei loro attivi. Comunque l’impatto ci sarebbe. Infine un contagio dalla Grecia potrebbe anche arrivare dalla politica. Nel 2015 ci saranno infatti le elezioni in Spagna e Portogallo, con partiti (come Podemos) molto vicini alle posizioni di Syriza in Grecia. Gli eventi ellenici, comunque vadano a finire, potrebbero dunque influenzare la politica di questi Stati. Nel bene o nel male, a seconda dei punti di vista.