la Repubblica, 17 aprile 2015
Che sia genocidio o pulizia etnica o terribile massacro trattasi sempre della medesima cosa, la deportazione e l’eliminazione di massa di più di un milione di armeni che vivevano in Turchia. È abbastanza incomprensibile che ci si accapigli tanto sulla classificazione dell’evento. Spaventa e colpisce, invece, l’inutilità dei cento anni trascorsi: almeno a giudicare dalla violenta reazione delle autorità turche
Nella vicenda turco-armena è abbastanza incomprensibile (e anche un po’ ridicolo) che ci si accapigli tanto sulla classificazione dell’evento: che sia genocidio o pulizia etnica o terribile massacro o grande crimine trattasi sempre della medesima cosa, la deportazione e l’eliminazione di massa di più di un milione di armeni che vivevano in Turchia. Il loro numero non aumenta e non diminuisce a seconda delle dispute politico-diplomatiche. Anche se Erdogan riuscisse a far denominare ufficialmente la vicenda “episodio increscioso”, o “antipatico incidente”, l’enorme cicatrice rimarrebbe identica. Spaventa e colpisce, comunque, l’inutilità dei cento anni trascorsi: almeno a giudicare dalla violenza emotiva con la quale le autorità turche vivono ancora quella vicenda. Come già verificato nella orribile guerra jugoslava, i secoli rigurgitano i loro miasmi senza tregua, come se non esistesse consolazione dal dolore, ammissione e remissione delle colpe, anche quelle remote o remotissime. Come se esistesse uno stigma che ogni nuovo nato porta in sé, l’armeno nascendo vittima e il turco carnefice. Ma non esiste, quello stigma, e bisogna gridarlo, che non esiste: ognuno nasce innocente e nasce nuovo. Chissà quando accadrà che ogni nato, ben prima di sentirsi armeno o turco, si senta libero, soprattutto libero dal passato.