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 2015  aprile 17 Venerdì calendario

Roberto Speranza si è dimesso e di tornare indietro per ora non ne vuole sapere: «Sono sereno e determinato, consapevole di aver fatto una cosa forte e trasparente che sentivo dentro e di aver dato un segnale di fierezza e autonomia». In molti sperano che ci ripensi, ma «ora la palla è nelle mani del Segretario»

Ai «tantissimi» che gli hanno scritto o telefonato dopo lo strappo delle dimissioni, Roberto Speranza ha risposto di sentirsi a posto con la coscienza, fiero di non essersi piegato in nome di una battaglia ideale. «Un gesto vero, pesante, carico di significato politico» lo ha descritto il capogruppo dimissionario ai deputati di Area riformista e poi ai militanti, agli elettori, ai colleghi di altri partiti che lo hanno fermato alla Camera: «Sono sereno e determinato, consapevole di aver fatto una cosa forte e trasparente che sentivo dentro e di aver dato un segnale di fierezza e autonomia».
Su quel gesto, dalla notte della rottura, la minoranza si interroga. È una gara a tirare Speranza per la giacca, chi vuole che tenga duro e chi prega che torni sui suoi passi, come gli hanno chiesto in rapida sequenza Renzi, Guerini e Orfini. Il duello sottotraccia è tra l’ala dura della corrente e quella «governativa». Tanto che ieri mattina, a giornali letti, gli intransigenti sospettavano una manovra dei filorenziani per far apparire una ritirata il non voto della minoranza all’assemblea del gruppo.
Tormenti dei quali Speranza non sembra curarsi, intento com’è a soppesare le conseguenze del suo gesto. «Resto profondamente convinto che sia un errore politico madornale non cambiare la legge elettorale alla Camera, per approvarla a maggio qui e a luglio al Senato» ha ribadito a Montecitorio ieri mattina, prendendo posto accanto a Zanda e Guerini per il 70° anniversario della Resistenza. E poi, agli amici: «Il presidente di 320 deputati che rinuncia a una poltrona non una banalità, sbaglia chi pensa che sto giocando». Per nulla rassegnata alla sconfitta, la minoranza studia il modo più indolore di far pesare il passo indietro di Speranza, quando Renzi tornerà dagli Stati Uniti.
Per rispetto nei confronti del premier in missione da Obama il capogruppo dimissionario sta alla larga dai giornalisti e dalla tv, ma i suoi parlano, eccome. E raccontano che adesso «il pallone è nelle mani del segretario». Tocca a lui tirare il rigore se vuole mandare in porta il sospirato Italicum. I deputati di Area riformista, offesi perché Palazzo Chigi ha derubricato la sfida del capogruppo a «dinamiche interne alla minoranza», la spiegano così: «Sta a Renzi decidere se vuole ricomporre la frattura con noi. Se apre sulla legge elettorale, Roberto ci può ripensare». Una tesi ardita, ma è anche l’unica che potrebbe far trangugiare a Bersani, Bindi, Fassina, D’Attorre, Civati e compagni l’idea che il capogruppo possa tornare al suo posto. Ecco perché è importante la nota dei senatori che si sono esposti a sostegno di Speranza. Serve a ricordare al leader che la loro lealtà non è in discussione, ma anche che 21 firme bastano eccome ad affossare la riforma costituzionale in Senato, dove il governo si regge per nove voti al massimo. Scenari di cui Speranza non vuole sentir parlare. Per lui conta il merito, la decisione «forte e serena» di non mettere la sua firma sotto la scelta di approvare l’Italicum a maggioranza, senza un terzo di Pd. E pazienza se tanti hanno letto nella prova di autonomia del giovane deputato di Potenza la candidatura alla guida della minoranza. «Chiacchiere», risponde col sorriso ai colleghi che gli chiedono conferma di certe «fastidiose letture».