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 2015  aprile 17 Venerdì calendario

Profughi che ammazzano altri profughi. Dodici cristiani, per l’esattezza, nove ghanesi e tre nigeriani, sono stati gettati in mare perché credevano in un altro Dio. Il racconto dei sopravvissuti che si sono salvati formando una catena umana

«Durante la traversata, dopo circa un giorno di navigazione, a un certo punto alcuni soggetti di religione musulmana hanno iniziato a inveire contro noi cristiani solamente perché di professione religiosa diversa. Molti di questi musulmani dicevano che ci avrebbero gettato in mare. Dopo le minacce, domenica sera verso le 21, mentre ci trovavamo in mare aperto, molti dei musulmani sono passati alle vie di fatto e hanno cominciato a gettare in mare alcuni di noi cristiani. Ho visto con i miei occhi gettare in mare nove ghanesi e tre nigeriani. Hanno tentato di gettare in mare anche me e gli altri cristiani rimasti a bordo e non ci sono riusciti perché ci siamo difesi con tutte le nostre forze, aggrappandoci al gommone e tenendoci tra di noi. Tra le persone gettate in mare c’erano anche i tre amici con i quali avevo iniziato il viaggio dal mio Paese d’origine. La nostra resistenza è durata circa un’ora e si è conclusa quando è arrivata la nave che ci ha soccorso». Yeboah è un ragazzo ghanese. È un sopravvissuto. Il suo racconto dell’orrore di fronte ai poliziotti della squadra mobile di Palermo viene confermato da altri cinque stranieri approdati con lui in Sicilia due giorni fa. Ognuno aggiunge qualche dettaglio, fissa un particolare e svela quale sia stato il livello di ferocia degli uomini a bordo.
L’arrivo in porto
Si torna dunque alla mattina del 15 aprile, quando il mercantile «Ellensborg» con bandiera panamense entra nel porto del capoluogo siciliano. Trasporta un centinaio di migranti soccorsi in alto mare la sera del 12 aprile. Agli agenti che li assistono ed effettuano le procedure di identificazione, alcuni stranieri raccontano di una rissa avvenuta mentre erano ancora nelle mani degli scafisti a bordo di un gommone partito da Tripoli e del l’agghiacciante epilogo: i loro amici sono stati uccisi per motivi religiosi.
Gli investigatori portano tutti in questura, cominciano le verifiche svolte con gli uomini dello Sco, il servizio centrale operativo. Vengono ascoltati i testimoni, si mostrano loro le foto degli altri stranieri che erano a bordo, si individuano i ruoli di ognuno. Proprio per cercare di ricostruire quanto accaduto, si ricomincia dal momento della partenza dalle coste libiche. E lentamente la tragedia viene rivelata in ogni particolare.
«I 650 dinari in Libia»
Racconta Yeboha: «Sono andato via dal mio Paese circa due mesi fa insieme a due miei amici e ci siamo recati in Libia, per cercare poi di giungere in Europa, con un pullman e con auto private che abbiamo pagato autonomamente. Circa un mese e mezzo fa sono giunto a Tripoli e ho contattato un mio connazionale di nome Isaac che vive lì, al quale ho chiesto soldi in prestito, 650 dinari libici (circa 1.300 euro), per vivere in Libia, da restituirgli una volta iniziato a lavorare. Invece, vista la situazione di continuo conflitto esistente in Libia ho deciso di partire e quindi alcuni miei amici, anche loro intenzionati a partire, hanno contattato dei soggetti che organizzano viaggi in mare verso l’Europa. I miei amici si chiamano Kwasi, Yaw, Asiedu e sono tutti e tre ghanesi. Sabato scorso alle 20 siamo andati presso una spiaggia e abbiamo trovato un gommone nero con molta gente già a bordo in attesa di partire. Quasi contemporaneamente siamo saliti a siamo partiti in più di cento persone, di varia nazionalità e di religione diversa. Io e i miei amici siamo di religione cristiana».
«Erano in tanti, noi terrorizzati»
Viene interrogato Lambert, fornisce una versione analoga, dice di aver versato «150 dinari per partire», sottolinea come la scelta di abbandonare la Libia sia stata fatta perché «essendo cristiano la situazione per me era diventata molto rischiosa». Anche lui racconta l’aggressione dei musulmani, la paura, la gioia per essere riuscito a salvarsi. Spiega che «il gommone era governato da un soggetto di colore del quale non conosco la nazionalità». Augustin ha ricordi ancora più nitidi. Dopo aver dichiarato di aver pagato «800 dinari per il viaggio», aggiunge: «Domenica sera, improvvisamente, coloro che parlavano francese hanno cominciato a inveire contro i ghanesi e i nigeriani. Non saprei dire il motivo scatenante, forse perché eravamo troppi a bordo. A un certo punto uno di noi ha capito quello che dicevano coloro che parlavano in francese, ovvero che volevano gettare in mare noi ghanesi e i nigeriani, tra cui anche io. Poco dopo sono stati gettati in mare tre nigeriani e sei ghanesi, dopo un disperato tentativo da parte di ognuno di non essere scaraventato fuori bordo. Ho visto annegare e morire i nove compagni di viaggio. Ho potuto vedere tutto perché ogni volta che gettavano in mare i compagni di viaggio le persone che parlavano in francese facevano fermare il gommone al soggetto che lo stava conducendo. Prima di gettare in mare le persone, i musulmani li hanno picchiati e poiché i musulmani erano la maggioranza riuscivano nel loro intento, anche perché noi della minoranza eravamo terrorizzati».
Il morso al piede
Il giovane fornisce poi un dettaglio che consente di identificare uno dei presunti assassini. Lo fa dopo aver visto la serie di foto scattate dal comandante della nave al momento di effettuare il soccorso e trasferire gli stranieri dal gommone. Ricorda che uno dei musulmani «dopo aver gettato in mare due ghanesi ha cercato di gettare in mare anche me. Inoltre posso dire che l’alluce di un piede di costui è stato ferito con un morso da uno dei due che ha gettato in mare, il quale disperatamente cercava di resistere». Vengono ascoltati i poliziotti che si sono occupati delle operazioni di assistenza dopo lo sbarco e una di loro verbalizza: «Dopo lo sbarco dei migranti dalla nave “Ellensborg” notavo un migrante con una ferita all’alluce destro, recante un’evidente fasciatura bianca». È l’indizio che conferma il racconto degli scampati. L’uomo viene identificato, si chiama Ousmane Camara, ha 21 anni, proviene dalla Costa d’Avorio. La sua foto viene mostrata ai sei testimoni. Sono tutti concordi quando lo indicano come uno degli aggressori. Tra le immagini di tutti gli sbarcati, riconoscono anche gli altri «picchiatori». Lentamente e grazie ai controlli incrociati tra i racconti e i riconoscimenti fotografici la polizia individua quindici persone. Li accusa di omicidio aggravato dall’odio religioso e li trasferisce in una cella.