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 2015  aprile 01 Mercoledì calendario

L’Italia felix, l’Italia reale e l’effetto annuncio. Il dato con cui Matteo Renzi ha proclamato trionfalmente un record si è rivelato a miccia corta ed è esploso nelle mani di chi lo ha maneggiato con poca perizia

A nessuno interessa orchestrare danze macabre sulle macerie della congiuntura. Ma il dato di febbraio sull’aumento della disoccupazione e quello di marzo sulla deflazione che comunque perdura non sono bei segnali. E mostrano tutta la pericolosità di una rappresentazione di un’Italia felix, divaricata e distante rispetto all’Italia ancora infelix, pervasa da un’economia impaurita e fragile pur se in recupero. Il dato con cui Matteo Renzi ha annunciato trionfalmente un record si è rivelato a miccia corta ed è esploso nelle mani di chi lo ha maneggiato con poca perizia. E le perplessità avanzate da Luca Ricolfi sul Sole 24 Ore di domenica si sono dimostrate ben più che fondate.
L’ottimismo e la fiducia nel futuro sono ingredienti fondamentali per uscire dalla depressione collettiva in cui la recessione infinita ha confinato l’autostima di un intero Paese, ma il racconto della speranza deve partire dall’analisi della realtà.
E il dato della disoccupazione tornata a febbraio al 12,7% e soprattutto l’aumento degli inattivi – cioè quel serbatoio di capitale umano sprecato che non cerca nemmeno più un lavoro e nemmeno studia per crearsi un curriculum adatto a trovarne uno – segnalano una ripartenza a strappi e non ancora creatrice di vero nuovo lavoro. Una situazione che mitiga anche il cosiddetto “effetto tiraggio” che si avverte nei periodi in cui le persone percepiscono il miglioramento della situazione economica e passano dalla condizione di inattività a quella di chi cerca un lavoro perché ritiene di avere più possibilità di trovarlo. Un effetto che invece si era riscontrato nei dati di gennaio (e che perdura nel confronto anno su anno). A ulteriore conferma dell’aleatorietà del momento.
Ciò che deve preoccupare è l’andamento per i giovani: calano gli occupati (-40mila in un anno) e aumentano i disoccupati (11mila in un mese contro un calo su base annua di 27mila unità). Pericolosa è anche la polarizzazione dei generi con le donne più penalizzate di prima (tasso di occupazione calato dello 0,4% in un mese e quello di disoccupazione aumentato del 2,1% mentre resta stabile per gli uomini).
Sul mercato del lavoro è in atto un cambio di paradigma, con lo spostamento dai contratti a termine verso nuovi contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti (ma il vero changeover partirà con il dato di marzo, mese di avvio formale del jobs act) che la legge di stabilità ha reso più convenienti con la decontribuzione totale. Ma è evidente che il mercato non ha ancora scelto con nettezza la strada da prendere. La fase più nera sembra finita ma non è ancora chiaro quale sarà davvero il futuro. Probabilmente il 2015 sarà un anno di “sostituzione” con poca occupazione aggiuntiva; non è ancora chiaro tra l’altro quale diventerà il tasso di “disoccupazione fisiologica” nell’Italia del dopo-recessione ma è probabile che sia ben di più del 4-5% a suo tempo stimato da Paolo Sylos Labini, perché la ripartenza è meno labour intensive del passato, con la tecnologia protagonista della nuova fase di efficienza (cui è legato un lavoro di più alta qualità ma meno diffuso).
I dati di fiducia di imprese e consumatori, che a febbraio mostrano qualche refolo di vitalità anche per l’edilizia, vera e prima vittima della crisi, danno qualche speranza; le buone performance dell’export continuano a premiare un made in Italy coraggioso e globalizzato, soprattutto nei distretti industriali, vitali più che mai; la produzione industriale dà segni di ripartenza. Il commercio mostra con speranza i dati sull’aumento dei consumi alimentari, segno che le famiglie tornano ad acquistare parte di ciò che prima si negavano. Le banche, alluvionate di liquidità dalla Bce, prospettano un ritorno ai mutui e a nuovi impieghi “produttivi” in investimenti. Su tutto questo, però, pesa una condizione di deflazione, in calo ma persistente (con una inflazione accreditata per tutto il 2015 intorno allo zero), avvisaglia di una domanda interna ancora lontana da un vero scongelamento.
Si tratta di schegge, di lampi, non di un disegno solido e complessivo che possa proiettare l’Italia in una condizione di nuova normalità espansiva, solida e diffusa. Affidare solo al pompaggio propagandistico la profezia che si autodetermina della ripresa e della crescita è illusorio. Aumenterebbe la fiducia, ad esempio, avere più certezze sui decreti attuativi del jobs act che invece ancora fluttuano – da più di un mese – tra scrivanie di tecnici di varie amministrazioni e non sono arrivati in Parlamento per l’ok finale (atteso in agosto).
Semmai per chi governa le leve della politica economica è già tempo di chiedersi come impiegare il tempo comprato dal quantitative easing della Bce che non sarà infinito. Se non si completeranno le riforme e se non si procederà con nettezza e rigore ai tagli di spesa l’Italia non avrà le risorse per gestire la ripartenza al meglio anche se l’Europa si mostra benevola. E non avrà la giusta dote per gestire l’eventuale rimbalzo della nuova occupazione creata dagli incentivi dei contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti finanziati per ora solo con 1,8 miliardi nel 2015 e pari a circa 230mila assunzioni. Se non si troveranno altri fondi scatteranno le cosiddette clausole di salvaguardia e aumenteranno Iva e accise. Quale mai disegno di politica economica sarebbe quello che finanzia gli sgravi per l’occupazione con l’aumento delle tasse in un Paese con il record europeo di pressione fiscale?