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 2015  aprile 01 Mercoledì calendario

Turchia, sangue in nome di Berkin Elvan, il ragazzino eroe per caso freddato mentre comprava il pane. Vittima casuale, era stato trasformato dalla rivolta di Gezi Park nel simbolo della giustizia negata

Il senso tragico della cosa sta tutto in due dichiarazioni dei genitori di Berkin Elvan, ucciso da un lacrimogeno sparato ad altezza di ragazzo. La prima dichiarazione risale allo scorso 11 marzo, primo anniversario della morte del figlio. I signori Sami e Gülsüm Elvan avevano commentato l’omertà di polizia, magistratura e autorità politiche sui responsabili dell’uccisione del loro figlio: «Se continuano in questo modo, temiamo che qualcuno finisca per ricorrere alle pistole per chiedere giustizia». La seconda dichiarazione è venuta ieri, mentre il sequestro armato era in corso: «Nostro figlio è morto: che nessun altro muoia. Non si può lavare il sangue con altro sangue». Fra i due ammonimenti c’è una fessura, sufficiente però a contrapporre lo scongiuro all’auspicio.
Ieri sera, all’epilogo sanguinoso dell’impresa degli aspiranti giustizieri, i genitori di Berkin erano ancora più feriti e angosciati. Erano già stati colpiti da un destino beffardamente terribile: un figlio adolescente uscito di casa a comprare il pane e ferito a morte, ma ferito nel 2013, quando era quattordicenne, e morto nel 2014, a quindici anni, dopo aver trascorso in coma 269 giorni, e notti. Ancora ieri le agenzie da Istanbul non sapevano decidersi a chiamarlo quattordicenne o quindicenne. Di quel ragazzetto, Recep Tayyip Erdogan, già primo ministro poi presidente della Turchia, si era avventurato a dire che fosse «legato a gruppi terroristi». Nella primavera di Gezi Park, Erdogan era sembrato vacillare fino a schiantarsi, per poi trionfare nelle urne, e rincarare la propria oltranza. Con una copertura simile, era prevedibile che la polizia occultasse i nomi degli autori dell’uccisione di Berkin e degli altri omicidi – otto – perpetrati nelle strade, oltre alle migliaia di feriti. Ed era prevedibile che una magistratura già sottoposta a epurazioni e vendette impudenti da parte del governo fosse enormemente riluttante, per usare un eufemismo, a perseguire i responsabili.
Il gruppo clandestino di estrema sinistra pronto ad assicurare lo sviluppo temuto dal signor Elvan c’era: così di estrema sinistra da far pensare a una mascherata fuori tempo, sennonché i tempi sono tanti e diversi, e sarebbe troppo comodo per noi non riconoscere nei drappi e nelle stelle rosse di Istanbul di ieri l’affinità con una storia che era nostra ieri l’altro o poco più. A segnare un trapasso d’epoca c’è tuttavia un dettaglio decisivo: gli autori del sequestro del procuratore Mehmet Selim Kiraz, uccisi dalle forze speciali, appartenevano a una formazione che praticava le azioni suicide, quelle che chiamiamo malamente “kamikaze”. Se la denominazione ha un sapore tipicamente “marxista-leninista”, fin nella pedanteria del “Fronte-Partito” (“Fronte-Partito Rivoluzionario di Liberazione Popolare”), le azioni suicide compiute nel passato, alcune già in nome della vendetta per Berkin, sono altra cosa dalla disposizione al sacrificio di sé e sarebbero state derise dal leninismo ortodosso.
Nel giustizialismo di questi militanti c’è una buona dose di spettacolarità infantile: l’investitura di un tribunale del popolo, o la richiesta di far andare il poliziotto sparatore in televisione a confessare, come se una confessione imposta tenendo un ostaggio con la pistola alla tempia fosse accettabile. Ma c’è soprattutto, molto più profondamente, voluta o no – l’equivoco sul proprio altruismo è fin troppo possibile – la confisca di una giustizia negata dai colpevoli e rivendicata dalle vittime, che ne finiscono espropriate. Vecchia storia, che sempre si rinnova. Della giustizia negata a vittime di violenze poliziesche le nostre cronache sono tuttora fitte. Non solo le nostre. Lo scorso 18 marzo si è aperto in Francia, a Rennes, il processo per la morte di due ragazzi di Clichysous- Bois, Zyed Benna, 17 anni, e Bouna Traoré, 15. Dieci anni prima, 2005, tornano, col loro coetaneo Muhittin, da una partita di calcio. Non hanno fatto niente, non hanno alcun precedente: una pattuglia li prende di mira, loro si rifugiano dentro una centrale elettrica e muoiono folgorati – Muhittin, ferito, sopravvive. Una rivolta senza precedenti incendia centinaia di comuni di banlieue, il governo dichiara lo stato di emergenza e dice che i ragazzi erano criminali.
Dieci anni dopo, in tribunale, due poliziotti hanno un nome: sono imputati di «omessa assistenza a persona in pericolo». Non hanno impedito ai ragazzi di rifugiarsi là – ce li hanno spinti – a rischio della vita. In una registrazione il poliziotto aveva detto: «Se ci entrano, non do un soldo per la loro pelle». Dopo un’infinita traversia di non luoghi a procedere e insabbiamenti, il processo si apre in un paese scosso dal trauma di Charlie. È la Francia repubblicana, ben altra cosa dalla Turchia neoottomana di Erdogan. Tanto più amaramente si rilegge la testimonianza del sopravvissuto Muhittin: «Appena prima di morire, Zyed mi disse: “Se mi prendono, mio padre mi rimanda in quel buco di paese, in Tunisia”».
«Non vogliamo che altre madri piangano», avevano detto ieri Sami e Gülsüm Elvan. Sono morti tutti, l’ostaggio, i giustizieri. Ieri sera, a Istanbul, altre madri piangevano.