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 2015  aprile 01 Mercoledì calendario

Il nuovo Museo Egizio di Torino, completamente rifatto nell’antica sede, apre oggi al pubblico senza che il vecchio sia mai stato chiuso del tutto. Una rivoluzione copernicana rispetto alla vecchia immagine di una raccolta caotica, soffocata e un po’ polverosa ereditata dall’Ottocento, la scoperta di una grande istituzione di livello internazionale, finalmente all’altezza della fama di secondo museo egittologico al mondo, dopo quello del Cairo

Giravano certe facce, in questi ultimi giorni nel cantiere del Museo Egizio, che al confronto la idealizzata fissità fisionomica delle statue di faraoni e dignitari reali pareva più animata. Eppure i lavori procedevano senza sosta, senza più orari, (letteralmente) giorno e notte, in un caos apparente in cui ogni cosa alla fine andava al giusto posto. Da più di un anno era annunciato che il 1° aprile 2015 sarebbe stato il Gran Giorno, e oggi la promessa si compie: il nuovo Museo Egizio, completamente rifatto nell’antica sede, apre al pubblico senza che il vecchio sia mai stato chiuso del tutto.
Mission (im)possible
Un’impresa che poteva sembrare impossibile a chi pochi mesi fa avesse visitato le sale sventrate, e che si è realizzata grazie agli implacabili ritmi inflitti dalla presidente del museo Evelina Christillin – la «lady di ferro», come l’hanno prevedibilmente ribattezzata qui, ma anche, potremmo dire, il «caterpillar», per come ha saputo passare sopra ogni ostacolo tecnico e amministrativo, spremendo risorse dalle pieghe del bilancio. Però l’impresa non sarebbe mai andata a buon fine, senza il clima da «bella squadra» testimoniato da tutti, a tratti scherzoso, con un fiorire di battute a stemperare le inevitabili tensioni (una vetrina che destava qualche perplessità soprannominata «il microonde», una sala tormentata da infiniti incidenti di percorso che è diventata «tragedy»).
E così oggi, a Torino, il nuovo Egizio si rivela a tutti: ed è una rivoluzione copernicana rispetto alla vecchia immagine di una raccolta caotica, soffocata e un po’ polverosa ereditata dall’Ottocento, la scoperta di una grande istituzione di livello internazionale, finalmente all’altezza della fama di secondo museo egittologico al mondo, dopo quello del Cairo, ma primo per data di fondazione. Qualcuno ricorda le discussioni che tenevano banco poco più di dieci anni fa, quando c’era chi sosteneva la necessità di abbandonare la storica sede di via Accademia delle Scienze, per emigrare magari nella più spaziosa (ma periferica) Reggia di Venaria, o magari nell’edificio dove c’era (e c’è ancora) la stazione di Porta Nuova? L’eccellente lavoro dello studio di architettura di Aimaro Isola ha fugato ogni perplessità, trasformando il secentesco palazzo guariniano, nato come Collegio dei Nobili, in un moderno e confortevole spazio espositivo.
Il legame con Torino
Il legame con Torino e con questa sede in particolare, dove nel 1824 fu istituito il Museo Egizio con l’acquisto della collezione Drovetti da parte del re Carlo Felice di Savoia, è l’oggetto specifico delle Sale storiche, una sorta di meta-museo – omaggio agli uomini e alle donne che hanno contribuito a costruirlo – che il percorso studiato dal direttore Christian Greco e dai suoi curatori ha voluto accanto alla biglietteria, nel piano interrato, all’inizio della visita. A partire da quella Mensa Isiaca acquisita nel 1628 dal re Carlo Emanuele I, nucleo originario della collezione sabauda, e che il gesuita egittologo tedesco Athanasius Kircher definì «inextimabile aegyptiacum monumentum». Accanto, la Iside di basalto (finora creduta la dea Hathor) e la Sekhmet di diorite, divinità menfita dalla testa leonina, che furono tra i reperti portati a Torino a metà del Settecento dal botanico Vitaliano Donati su incarico di un altro Carlo Emanuele, questa volta terzo. E poi il Papiro Iufankh, 18,45 metri, il più lungo di tutti, un dipinto ottocentesco di Delleani che raffigura il museo com’era all’epoca, libri, documenti e reperti relativi alle dieci campagne di scavo di Ernesto Schiaparelli, direttore dell’Egizio a cavallo tra Otto e Novecento.
Il percorso vero e proprio comincia dal secondo piano, a cui si accede tramite la scala mobile affiancata su tutta la parete da un gigantesco plastico del Nilo – unico elemento discutibile, se non proprio imbarazzante – realizzato in stile Burri dallo scenografo premio Oscar Dante Ferretti (a cui peraltro si deve il bellissimo Statuario, ora tornato a essere «Galleria dei Re», come la chiamò Champollion di passaggio a Torino). La narrazione si snoda dall’alto verso il basso, fino alle sale del pianterreno, vagamente ispirandosi al modello (là elicoidale) del Guggenheim di New York, secondo un ordine cronologico e topografico.
Dal 4000 a.C. all’islam
Dapprima il Periodo Predinastico (4000-3400 a.C.), con selci, ceramiche, amuleti, una sepoltura in vaso un po’ impressionante (ma un cartello avvisa i visitatori ogni volta che ci si avvicina all’esposizione di resti umani). Quindi tutte le altre fasi della storia egiziana, dall’Antico Regno (notevole una tunica plissettata, unica al mondo per quell’epoca), al Primo Periodo Intermedio (circa 2118-1980 a.C.: straordinaria la ricomposizione della Tomba di Ini nel suo contesto archeologico, in base ai disegni del ritrovamento), al Medio e Nuovo Regno (con la spettacolare sala dei sarcofagi, restaurati dal Laboratorio dei Musei Vaticani e dal Centro di Conservazione e Restauro di Venaria), attraverso i successivi Periodi Intermedi, fino alla fase nubiana, alle epoche tolemaica e romana, per concludere con i primi documenti islamici del VII-VIII secolo.
«Less is more»
Ci si può soffermare sul sarcofago ligneo di Iqer, con la raffigurazione del più antico calendario astronomico che si conosca, risalente a quattromila anni fa; sui preziosissimi papiri con la mappa delle miniere d’oro, la congiura contro Ramesse III, l’annuncio della sua morte, il resoconto del primo sciopero documentato nella storia dell’umanità. E naturalmente la Tomba di Maia, la Tomba di Kha, l’intero Tempio di Ellesija, smontato e ricostruito, donato nel 1966 dall’Egitto in segno di gratitudine per l’aiuto italiano nel salvataggio dei monumenti che rischiavano di essere sommersi dopo la costruzione della diga di Assuan. Le testimonianze epigrafiche sono valorizzate e tradotte nelle didascalie (in italiano, inglese e arabo), così da consentire ai visitatori di immergersi nelle storie che raccontano. Ma tutto il museo è soprattutto narrazione, con la possibilità per ognuno di ritagliarsi i propri percorsi, con quattro diverse chiavi di lettura e grande attenzione per gli aspetti tecnico-materiali.
Fondamentale l’uso dei supporti multimediali che possono servire a dialogare con altre collezioni, ricostituendo l’interezza di quei ritrovamenti i cui singoli reperti sono stati sparsi nei musei di mezzo mondo, e di grande impatto le ricostruzione virtuali di alcuni contesti archeologici, realizzate in collaborazione con il Cnr, grazie alle quali si può vivere l’emozione della scoperta grazie a video in 3D. Ma nessun rischio di «effetto Disneyland», come paventato da qualcuno quando la grande trasformazione era ancora di là da venire: il nuovo Museo Egizio sa essere coinvolgente e rigoroso, come deve essere la comunicazione culturale ben fatta.
Tremila e cinquecento gli oggetti esposti (oltre ai diecimila che entro l’estate troveranno collocazione nei magazzini visitabili del primo e secondo soppalco), su una superficie espositiva raddoppiata a 10 mila metri quadrati. Un po’ meno che nel vecchio allestimento, forse, ma ora pienamente godibili a 360 gradi nella loro bellezza e importanza storica grazie alle nuove vetrine aperte alla vista su ogni lato, che hanno sostituito le gremite teche di una volta dove i reperti più rilevanti rischiavano di passare inosservati. «Less is more» è il comandamento che ha guidato il direttore Greco. E davvero bisogna convenire: meno, in questo caso è molto di più.