1 aprile 2015
Nucleare iraniano, si negozia a oltranza a Losanna. Quanto è lontana la bomba atomica di Teheran? Al centro della discussione le centrifughe, l’arricchimento di uranio, le sanzioni, ma anche la stabilità internazionale. Ecco le posizioni delle forze in campo e i punti di divisione. Obama vuole un accordo storico, Israele e Arabia Saudita contrari. Cerchiamo di capirne di più
Tra colpi di scena, ultimatum smentiti e litri di caffè, si è negoziato ancora nella notte all’Hotel Beau Rivage di Losanna, in cerca di un’intesa sul nucleare dell’Iran, vicina come mai prima d’ora, ma ancora non così completa da poter essere accettata da tutti i partecipanti. Quando mancavano poche ore alla mezzanotte di ieri, americani e iraniani, i due principali protagonisti della partita, hanno fatto sapere che la trattativa sarebbe sicuramente andata avanti per altre 24 ore per redigere una «dichiarazione comune», dando tempo fino a giugno per trasformarli in accordo, [Maurizio Molinari, La Stampa 1/4].
Come già accaduto a più riprese dal 24 novembre 2013, quando fu firmato a Ginevra uno storico accordo di massima sull’interruzione parziale del programma in cambio dell’alleggerimento delle sanzioni economiche nei confronti dell’Iran, i paesi che stanno trattando con Teheran sono quelli del cosiddetto “5+1”, cioè i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu col potere di veto (Stati Uniti, Cina, Regno Unito, Francia, Russia) più la Germania.
Le trattative diplomatiche in corso a Losanna mirano a restringere in modo permanente la capacità dell’Iran di dotarsi di un’arma atomica, in cambio della fine delle sanzioni che hanno messo in ginocchio l’economia di Teheran [Paolo Valentino, Corriere della Sera 31/3].
In realtà i leader iraniani sostengono da anni che il loro programma nucleare sia puramente pacifico, affermazione che non è mai stata completamente esclusa dalle ispezioni internazionali (e anzi è stata in passato avvalorata dall’Onu).
All’Hotel Beau Rivage di Losanna nel 1923 venne firmato il trattato per definire i confini della Turchia dopo la caduta dell’Impero Ottomano. Un precedente storico che deve essere sembrato di buon auspicio [Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 31/3].
In queste ultime ore i colloqui, sotto la presidenza di Federica Mogherini, alto rappresentante Ue per la politica estera, vertono su questioni tecniche come monitoraggi e verifiche perché l’avvicinamento fra Teheran e Washington sui temi nucleari è considerato «senza precedenti». Stati Uniti e Iran infatti non hanno relazioni diplomatiche dal 1979, quando il 4 novembre vennero sequestrati gli ostaggi all’ambasciata americana di Teheran in Avenue Taleghani [Maurizio Molinari, La Stampa 31/3].
Daniele Mastrogiacomo: «Nessuno vuole far fallire una trattativa che fino a due anni fa sembrava impossibile. Un terzo rinvio in 18 mesi sarebbe un naufragio: Teheran punterebbe dritta alla bomba nucleare, Barack Obama si brucerebbe una delle sue ultime carte in politica estera. E poi Israele: ancora ieri, davanti alle voci che davano per imminente un accordo Netanyahu ha lanciato fuoco e fiamme: “Non resteremo a guardare”» [la Repubblica 1/4].
«“Le sanzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu dovranno essere revocate dopo che il sestetto di mediatori e l’Iran raggiungeranno un accordo”. Era questa la richiesta che aveva avanzato in pubblico la Guida Suprema iraniana Alì Khamenei, massima istanza della repubblica islamica. Secondo fonti diplomatiche le “chiavi” dell’accordo sono nelle mani della Guida. Solo il Grande ayatollah, il Rabhar, può davvero sbloccare il difficile negoziato accettando una revoca non contestuale ma graduale delle sanzioni contro l’Iran. Khamenei avrebbe condizionato la firma alla revoca immediata delle misure prese ai danni di istituzioni, società e persone fisiche iraniane. Ma questa è una condizione non gradita dagli Usa che vogliono una tempistica agganciata ai controlli sulla conversione a scopi civili del nucleare iraniano» (Alberto Negri) [Il Sole 24 Ore 1/4].
Sono principalmente tre i punti più critici ancora da risolvere: la durata delle restrizioni sulle attività sia di arricchimento che di ricerca e sviluppo dell’Iran, oltre i 10 anni previsti dalla bozza d’intesa e a quanto pare già accettati da Teheran; il calendario di smantellamento delle sanzioni e infine il loro ripristino in caso di violazione dell’accordo da parte dell’Iran [Maurizio Molinari, La Stampa 31/3].
Paolo Valentino: «Soprattutto il primo punto appare controverso. Il regime sciita insiste per poter continuare una limitata attività di sviluppo e ricerca a fini pacifici. Ma l’impiego di centrifughe di nuova generazione, molto più veloci ed efficienti, rischierebbe di far saltare i parametri in base ai quali è calcolato il breakout time. Detto altrimenti, se Teheran decidesse di riprendere il programma atomico militare, i nuovi macchinari le consentirebbero tempi più spediti verso la costruzione di un ordigno» [Paolo Valentino, Corriere della Sera 31/3].
Le centrifughe sono le macchine che depurano (arricchiscono) l’uranio, o per scopi pacifici (basso grado di arricchimento) o per scopi militari (alto grado di purezza). L’Iran ne possiede 19 mila, di cui solo la metà operative. Secondo la bozza d’intesa, dovrebbe ridurre quelle in attività a 6 mila [Paolo Valentino, Corriere della Sera 31/3].
Il breakout time è il tempo necessario all’Iran, in caso di violazione dell’accordo, per arricchire uranio sufficiente a fabbricare anche una sola bomba atomica. Per gli Stati Uniti la linea rossa è di almeno un anno. Ma il calcolo è reso difficile dalla complessità delle variabili tecniche prese in considerazione. Fra queste, il numero di centrifughe di nuova generazione operative, che rischia di accorciare i tempi di arricchimento [Paolo Valentino, Corriere della Sera 31/3].
In più l’Iran ha grosse riserve di uranio a basso grado di arricchimento, che potrebbe essere nuovamente processato per usarlo in un ordigno. L’idea di trasferirle in Russia è stata respinta dagli iraniani, in un apparente voltafaccia. Ma gli americani sostengono che l’ipotesi è ancora in discussione. L’ostacolo potrebbe essere comunque aggirato, lasciando il materiale fissile in Iran, ma diluendone il grado di purezza, in modo da renderlo del tutto inutilizzabile per scopi militari [Paolo Valentino, Corriere della Sera 31/3].
C’è poi il nodo di Fordow, una centrale di ricerca e sviluppo iraniana, seppellita dentro una montagna, che potrebbe essere invulnerabile a un attacco militare. Gli Usa la volevano smantellata, ora si prospetta la soluzione di consentire all’Iran di condurvi, sotto controllo internazionale rinforzato, una piccola attività ricerca e sviluppo a scopi farmaceutici [Paolo Valentino, Corriere della Sera 31/3].
Parlando invece delle sanzioni, due sono quelle che più hanno paralizzato l’economica iraniana negli ultimi tre anni: quelle sul petrolio, che hanno impedito di esportare il greggio, e quelle sulle transazioni bancarie, che tra l’altro hanno escluso l’Iran dall’accesso al Swift, il codice internazionale utilizzato per i trasferimenti bancari, bloccando tutto l’import-export. Le sanzioni Onu sono complicate anche per il fatto che gli occidentali vorrebbero che tornassero in vigore automaticamente nel caso in cui l’Iran non rispettasse i patti, mentre Cina e Russia su questo non sono d’accordo [Vanna Vannuccini, Rep 31/3].
L’Iran inoltre vorrebbe che il suo programma nucleare tornasse sotto le competenze dell’Aiea. Restare sotto la sorveglianza del Consiglio di sicurezza equivale a dire che il mondo continua a considerare la Repubblica islamica come una minaccia [Vanna Vannuccini, Rep 31/3].
Quanto dovrà durare l’accordo? Dieci anni, come minimo. Gli Usa chiedevano 20 anni. Il compromesso possibile è 10 più 5 [Paolo Valentino, Corriere della Sera 31/3].
Riassumendo in breve la storia recente del nucleare iraniano: per 18 anni, tra il 1985 e il 2002, Teheran ha sviluppato le sue attività nucleari in maniera clandestina. Un programma che venne alla luce nel 2002 quando si scoprì che Teheran stava costruendo, senza averlo dichiarato, un impianto sotterraneo a Natanz e un reattore ad acqua pesante ad Arak per generare combustibile nucleare. Nel 2003 Teheran accetta le ispezioni dell’Aiea, l’Agenzia per l’Energia atomica dell’Onu, ma quando nel 2005 arriva al potere Mahmoud Ahmadinejad inizia una fase di stallo. E cominciano a essere emanate sanzioni – americane, europee e dell’Onu sia sul petrolio che sulle transazioni commerciali e finanziarie. Con la vittoria alle presidenziali del 2013 del moderato Hassan Rohani, l’Iran riprova la via diplomatica e il 24 novembre 2013 si firma a Ginevra l’intesa sul congelamento dell’arricchimento dell’uranio [Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 31/3].
Semplificando, oggi la situazione è complicata dal fatto che l’Iran in questi mesi si trova dalla stessa parte degli Stati Uniti e dell’Occidente nella lotta allo Stato Islamico, mentre invece sostiene il regime siriano sciita molto criticato dagli Stati Uniti; e che allo stesso tempo sia avversario degli Stati Uniti in Yemen.
Chi teme l’accordo con l’Iran? Sono sostanzialmente in tre: la maggioranza repubblicana del Congresso Usa, Israele e l’Arabia Saudita. Alberto Negri: «Ma questi tre attori rappresentano un fronte più vasto: il Congresso, come ha dimostrato il discorso di Benjamin Netanyahu il 3 marzo, ha un filo diretto con le lobby ebraiche e anti-iraniane; Israele parla anche per una parte consistente dell’Occidente che diffida della propaganda anti-ebraica dell’Iran; l’Arabia si fa portavoce degli interessi delle monarchie del Golfo e di quel mondo sunnita che comunque dipende per salvare i bilanci dai petrodollari degli emiri» [Il Sole 24 Ore 31/3].
Ma l’intreccio di interessi economici e strategici è molto fitto. All’interno del “5 + 1” la Francia per motivi di commesse militari e d’affari è incline a esprimere le preoccupazioni dei suoi ricchi clienti sunniti del Golfo. Ma allo stesso tempo invia missioni d’affari a Teheran per approfittare dell’eventuale allentamento delle sanzioni. Lo fa anche l’Italia naturalmente che con l’Iran intrattiene ottimi rapporti diplomatici ma il nostro Paese, pur invitato, rinunciò alcuni anni fa al tavolo negoziale: come ha detto uno dei responsabili dalla Farnesina «è come aver detto di preferire la Champions League in tv invece di giocarla» [Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 31/3].
Perché l’amministrazione Obama vuole un’intesa con l’Iran? Lo spiega Negri: «Washington teme che il fallimento dei negoziati possa condurre allo sgretolamento del sistema delle sanzioni e di ogni concreta pressione su Teheran. Russia, Cina, India e alcune nazioni europee hanno accettato di sostenere l’apparato sanzionatorio per arrivare a un’intesa, non perché diventasse permanente. Israele e il Congresso, dove il Senato si prepara a varare un nuovo disegno legge di misure anti-Teheran, la pensano in modo opposto. Netanyahu, recentemente rieletto, è in rotta con l’amministrazione Obama per la determinazione della Casa Bianca nel voler normalizzare i rapporti con Teheran» [Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 31/3].
Non si può escludere la possibilità che Israele decida, se ritenesse l’accordo con l’Iran insufficiente a prevenire lo sviluppo di un nucleare militare, di bombardare i siti iraniani come già fece con quelli di Saddam Hussein in Iraq nel 1981 o più di recente, nel 2007, in Siria. Ma questa al momento è un’ipotesi contestata all’interno dello stesso Israele e per evitare scenari catastrofici alla fine il governo potrebbe inghiottire il boccone amaro di un accordo [Vanna Vannuccini, la Repubblica 31/3].
Vanna Vannuccini: «Alcuni diplomatici, sempre mantenendo l’anonimato, hanno spiegato che non si tratterà di un documento pubblico. Questo dovrebbe rendere più facile a Obama difenderlo dagli attacchi del Congresso, ai cui membri la Casa Bianca dovrà spiegare le soluzioni concordate a Losanna: ma lo potrà fare in un briefing a porte chiuse, anziché in modo formale come nel caso di un documento pubblico. «Israele non chiuderà gli occhi e continuerà ad agire contro ogni minaccia », ha ripetuto il premier israeliano Netanyahu» [la Repubblica 31/3].
C’è poi la posizione dell’Arabia Saudita, che è ben più delicata. Negri: «A differenza di Tel Aviv, Riad non ha un arsenale nucleare. E se l’ostilità iraniana verso Israele è soprattutto ideologica e propagandistica, la rivalità tra gli ayatollah e i sauditi – che incendia lo scontro tra sunniti e sciiti in tutta l’area – è molto più profonda a livello strategico e geopolitico. È ben visibile nel conflitto in Yemen, roccaforte di al-Qaeda, dove l’Iran sostiene i ribelli sciiti Houthi ma anche in Iraq e in Siria dove le monarchie del Golfo appoggiano i movimenti radicali sunniti: a fare la guerra al Califfato sono sciiti e curdi, certo non gli Stati sunniti che partecipano ai raid perché lo hanno chiesto gli americani» [Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 31/3].
«L’accordo che stanno scrivendo a Losanna premia l’aggressione iraniana allo Yemen», ha affermato il premier israeliano Netanyahu, parlando a nome delle «nazioni moderate e responsabili della regione che non capiscono perché a Losanna chiudono gli occhi sull’aggressione in atto». Ieri, per il quinto giorno di seguito i jet sauditi hanno martellato le difese anti-aeree delle milizie houthi nel Sud dello Yemen, attorno ad Aden, indicando lo stretto di Bab el-Mandeb come l’oggetto della prova di forza. Navi da guerra saudite ed egiziane sono schierate nello stretto che Benjamin Netanyahu, parlando da Gerusalemme, definisce «il vero obiettivo dell’aggressione iraniana allo Yemen» perché «Teheran punta al controllo del commercio globale nel Mar Rosso» [Maurizio Molinari, La Stampa 31/3].
L’ex ambasciatore Antonio Armellini: «L’Iran è uno dei firmatari del Trattato di non proliferazione (Tnp), riconosce l’obbligo di sottostare al regime di controlli previsto dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) e rivendica il diritto di sviluppare la sua industria nucleare a fini pacifici. Il regime degli Ayatollah continua ad essere il riferimento di una politica di profondo contrasto agli interessi dell’Occidente. Dispone di un insieme di conoscenze scientifiche, che permetterebbero alla sua industria nucleare di raggiungere in tempi relativamente brevi una capacità militare, e ha dato in più occasioni prova di non rispettare gli impegni. Quello della “bomba iraniana” è tutt’altro che un caso di scuola teorico» [Corriere della Sera 25/3/2015].
Alberto Negri: «Prima della caduta dello Shah Reza Pahlevi, l’Iran era uno dei più importanti alleati di Washington con ambizioni mai sopite da superpotenza del Golfo. Lo stesso Barack Obama di recente ha affermato che se firmerà l’intesa il Paese avrà davanti un futuro «molto prospero»: 80 milioni di abitanti, portabandiera del ramo musulmano sciita, al quarto e al secondo posto mondiale per riserve di petrolio e di gas, un apparato industriale e militare di tutto rispetto, l’antica Persia ha numeri e potenzialità per emergere in primo piano» [Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 31/3].
Bernardo Valli: «Ci si può fidare degli ayatollah? Il mondo è diviso. Nella stessa America, diventata subito il “grande Satana” per la Teheran dei chierici, il Congresso, dove dominano i repubblicani, è in favore di più severe sanzioni all’Iran; mentre la Casa Bianca, democratica, è incline a un’intesa, sia pure con tutte le precauzioni. Il trionfo della diplomazia vale più di cento battaglie vinte. Ma la contabilità nucleare è un esercizio rischioso. Gli sbagli col tempo si pagano. Ed è facile sbagliare se gli interlocutori non si distinguono spesso per la chiarezza. Il leader supremo, l’ayatollah Khamenei, è un enigma» [la Repubblica 1/4].
Ancora Antonio Armellini: «Un accordo rafforzerebbe l’ala moderata che fa capo al presidente Rouhani e, pur facendo la tara dell’imprevedibilità del regime, potrebbe recuperare l’Iran a un dialogo costruttivo, senza il quale qualsiasi ipotesi di stabilizzazione della regione rischierebbe di diventare una chimera. Un fallimento spingerebbe nuovamente l’Iran ai margini della legittimità internazionale e ridarebbe fiato all’ala più intransigente della teocrazia, che non a caso si agita per sabotarne l’esito. Parlare di dialogo, per quanto cauto, sui temi della regione diverrebbe utopia e l’Occidente dovrebbe prepararsi ad affrontare una situazione sempre più ingestibile dal punto di vista dei suoi interessi» [Cds 25/3/2015].