Corriere della Sera, 31 marzo 2015
Mussolini, Hilter e le diplomazie parallele
Nel leggere il saggio di Pierre Milza Hitler e Mussolini, apprendo che il Duce, appena giunto al potere, fece ricorso a una sorta di diplomazia alternativa, parallela a quella esercitata con i canali dell’ambasciata e dei consolati. Penso che l’avesse fatto per disporre sbrigativamente delle informazioni che più gli stavano a cuore. Ciò fa supporre che Mussolini sia stato in buona compagnia con altri capi di Governo nell’utilizzare scorciatoie che forse durano anche oggi. La «tecnica» è uno spavaldo debordare dalla corretta pratica diplomatica, o ne è un’innocua e insieme utile integrazione?
Alessandro Prandi
Caro Prandi,
L’«antenna» di Mussolini in Germania fu per qualche anno il «maggiore» Giuseppe Renzetti, un veterano della Grande guerra che aveva aderito al movimento fascista e viveva a Berlino dove aveva fondato la Camera di commercio italiana. Quando divenne presidente del Consiglio e preferì dirigere personalmente il ministero degli Esteri, Mussolini se ne servì per avere maggiori notizie sui movimenti di estrema destra (fra cui, in particolare, gli «elmetti di acciaio») e, dalla fine degli anni Venti, sul «promettente» Adolf Hitler e alcuni fra i suoi principali collaboratori. Sapeva che gli esponenti dell’estrema destra tedesca lanciavano segnali di amicizia al partito fascista e voleva sapere quale sarebbe stata la loro politica estera se avessero conquistato il potere. Avrebbero cercato di annettere l’Austria? Avrebbero rivendicato la provincia di Bolzano, dove la maggioranza della popolazione parlava tedesco?
Non è vero, tuttavia, che Renzetti agisse dietro le spalle della rappresentanza diplomatica italiana. Quando l’ambasciatore era Luca Orsini Baroni (dal 1929 al 1932), i diplomatici erano piuttosto contenti che i contatti confidenziali con l’estrema destra, acerrima nemica della Repubblica di Weimar, venissero tenuti privatamente e confidenzialmente da un personaggio che non aveva un profilo ufficiale.
Molto diverso, invece, è un altro caso di diplomazia informale. Quando Woodrow Wilson arrivò a Parigi per la conferenza della pace, dopo la fine della Grande guerra, i rappresentanti dei Paesi alleati scoprirono rapidamente che i ministri degli Esteri, nella delegazione americana, erano due. Il primo era Robert Lansing, avvocato e uomo politico, segretario di Stato dal 1915. Il secondo era un personaggio che tutti chiamavano «colonnello House», anche se non sembra che avesse mai indossato una uniforme. Edward M. House aveva fatto politica nel Texas per qualche anno, ma preferiva agire informalmente. Buon amico di Wilson dal 1911, fu il suo principale confidente e consigliere dopo l’inizio della Grande guerra. Fece due viaggi in Europa nella prima fase del conflitto, ebbe una parte di rilievo nella redazione dei 14 punti (il programma americano per la riorganizzazione della società internazionale dopo la guerra), fu interventista, accompagnò Wilson a Parigi ed ebbe molti incarichi ufficiali durante i negoziati. Ma non era una eminenza grigia e desiderava che il suo ruolo fosse pubblicamente riconosciuto. Fu questa probabilmente la ragione per cui i suoi rapporti con Wilson si raffreddarono e il presidente, nel 1919, rinunciò bruscamente alla sua collaborazione.
Ma l’inclinazione della Casa Bianca per la diplomazia parallela non è scomparsa. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, il presidente può contare, oltre che sul segretario di Stato, sul suo personale consigliere per la sicurezza. Alcune delle maggiori iniziative della politica estera americana durante la Guerra fredda, dal miglioramento dei rapporti con l’Urss allo stabilimento dei rapporti con la Cina comunista, furono prese da Henry Kissinger quando era consigliere di Richard Nixon.