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 2015  marzo 31 Martedì calendario

La «Guerra del ’15» ci fa ancora paura. Torna il capolavoro di Giani Stuparich. Trincee scavate a mani nude, notti all’addiaccio, rancio immangiabile. Il fronte dell’Isonzo descritto dal fratello di Carlo, futuro ufficiale e medaglia d’oro. Un eroe antieroe d’altri tempi

Evviva gli anniversari! Se non fosse per il centenario della prima guerra mondiale, quando mai avrei letto Guerra del ’15 di Giani Stuparich? Il diario di trincea dello scrittore triestino non veniva ripubblicato da 35 anni, ora ci ha pensato Quodlibet che al merito della riedizione aggiunge quello della copertina: una foto strepitosamente ungarettiana con protagonista il Carso come può immaginarselo il lettore di Allegria di naufragi e quindi sassoso e ostile. Una copertina che, a saperla intendere, fornisce un’indicazione critica, un’idea di Stuparich come di un Ungaretti in prosa: altrettanto sobrio, appena meno laconico, forse anche meno sentimentale. Lo spazio e il tempo sono i medesimi, il fronte isontino durante la grande guerra, pochi chilometri quadrati che in breve lasso di tempo ingurgitano la meglio gioventù dell’epoca.
Il diario di Stuparich copre un periodo ancor più breve, poco più di due mesi, giusto la prima fase del conflitto. Come mai? Forse per non mettere nero su bianco la morte dell’amico Scipio Slataper e poi quella dell’amatissimo fratello Carlo, suicidatosi per non cadere prigioniero degli austriaci che lo avrebbero volentieri impiccato come Cesare Battisti (gli italiani irredenti che si arruolavano nell’esercito italiano venivano accusati di alto tradimento). O forse perché Stuparich in seguito viene nominato ufficiale e si merita una medaglia d’oro. La motivazione fa ancora venire la pelle d’oca: «In cruenta ed impari lotta, anziché porsi in salvo, come ripetutamente dai superiori era stato invitato a fare, a capo di un manipolo pressoché annientato si slanciò attraverso una zona battutissima dal fuoco nemico. Ferito si rifiutava di abbandonare il proprio reparto, dando così luminoso esempio di belle virtù militari».
Diventa insomma un personaggio importante ma non ha nessuna intenzione di scrivere un’autobiografia encomiastica. Per quell’attitudine antieroica che hanno molti veri eroi, preferisce fermarsi prima, all’estate del 1915, e raccontare la guerra vissuta da gregario, soldato semplice fra soldati semplici. Preferisce raccontare una vita quotidiana fatta di trincee scavate anche a mani nude, di notti all’addiaccio, perfino sulla ghiaia, di rancio a volte puzzolente a volte inesistente, di impossibilità di lavarsi e di ciò che ne consegue: «Ci siamo abituati alla sporcizia, a tenere le scarpe ai piedi per più giorni di seguito, ci abitueremo forse anche ai pidocchi, ma per ora è un martirio».
Stuparich è un letterato, è un collaboratore della Voce (in quel momento la più importante rivista culturale italiana), è amico di Soffici, di Rosai, di Prezzolini (che gli scrive spesso), eppure di letteratura non parla mai. Giusto, quando intorno cadono proiettili da 305 le discussioni delle Giubbe Rosse passano in secondo piano: «Siamo saliti quassù prima dell’aurora, per prepararci all’assalto. È la volta del nostro battaglione, il quale deve tentar la conquista delle trincee nemiche che tutta l’altra notte tutto ieri hanno resistito ai nostri assalti. Penso, con calma, che bisognerà morire». Erano carne da cannone, i soldati della grande guerra gettati da generali senza coscienza in attacchi senza speranza. Ciò nonostante Stuparich non maledice mai e si lamenta pochissimo.
Ho finito il libro pieno di ammirazione per lo scrittore e per l’uomo e lo so che non si dovrebbe fare, che le armi sono cambiate, che l’esercito è cambiato, che il mondo è cambiato, ma faccio un paragone coi giorni nostri, con queste altre guerre del ’15, del 2015 stavolta. E non riesco a immaginarmi, su qualsivoglia fronte odierno, un soldato-scrittore con un senso così alto del dovere e dello stile.